Secondo uno studio McKinsey/Nielsen su un campione sparso fra Inghilterra, Spagna, Germania, Polonia, Olanda e India, il 27% dei ragazzi fra i 16 e i 24 anni ha dichiarato di non avere alcun interesse per il calcio e solo il 49% ha risposto di seguire il calcio per "tifare", mentre il 32% ha dichiarato di seguire questo sport perché interessato a uno specifico calciatore (e guarda solo il big match)
L’allarme era stato lanciato già prima della pandemia. E in numeri erano anche piuttosto desolanti. Il pallone si stava sgonfiando improvvisamente. Perché a un numero sempre crescente di persone non interessava più vederlo rimbalzare. Così nell’ottobre del 2019 Andrea Agnelli aveva alzato la voce per denunciare il problema: “Abbiamo registrato un calo del 40% di audience nella fascia fra i 12 e i 34 anni”. La tendenza che appariva chiara a tutti, ma nessuno aveva avuto ancora il coraggio di tradurla in un numero. E da allora quella cifra preceduta da un sinistro meno ha iniziato a stagliarsi come un’ombra cupa sul futuro dello sport più praticato del mondo. Quasi quindici mesi dopo, la situazione è cambiata parecchio. E forse in peggio.
Perché il Covid-19 ha provocato una frattura fra i tifosi e i loro club. Il calcio non viene più percepito come una liturgia che trova la sua eucarestia nella celebrazione della domenica (e nel turno infrasettimanale di coppa), non è più un rito pagano che concentra migliaia di persone in un luogo di culto chiamato stadio. Spogliato dei suoi tifosi, il pallone è diventato esclusivamente un prodotto televisivo. E neanche dei migliori visto l’effetto straniante prodotto dalla continua visione dei seggiolini vuoti e dall’ascolto chiaro delle parole dei protagonisti, prima coperte da una pioggia di cori. Confinato sul suo divano, il tifoso è stato costretto a tradurre la fede in atto personale e ostinato. E ha dovuto badare a non cadere in tentazione, a non pigiare sul telecomando alla ricerca di altro. La presenza allo stadio (o quanto meno il sapere che su quelle curve e quelle tribune c’erano altri fedeli pronti a portare a termine una missione comune) era l’unico modo che il tifoso aveva per riuscire a illudersi di poter incidere sul risultato finale. E con le partite giocate a porte chiuse, il pallone si è trasformato in qualcosa di molto vicino ai film, con lo spettatore fermo ad assistere passivamente a uno spettacolo interpretato da altri.
La partita non era più il momento intorno al quale organizzare una giornata. Era un programma in mezzo a tanti altri. E la ripresa del torneo dopo il lockdown ha confermato questa tendenza. Ancora una volta i numeri sono spietati. Fra gennaio e febbraio 2020 (in un periodo che coincide con il diciottesimo e il ventiquattresimo turno), una giornata di Serie A veniva seguita in media 6,5 milioni di spettatori. Alla ripresa del campionato, però, molti schermi sono rimasti spenti. Fra la ventisettesima e la trentesima giornata, infatti, i telespettatori sono scesi a 4 milioni. Addirittura 2,5 milioni in meno. Un’enormità. Il crollo è stato spiegato in molti modi diversi. Secondo qualcuno è legato all’atmosfera spettrale degli stadi che trasforma i match in un fake e ne annacqua la carica simbolica e simbiotica, secondo altri è dovuto alle difficoltà di un periodo che ci costringe a concentrarci maggiormente su una altre priorità. Una chiave di lettura interessante, invece, è stata proposta da Aldo Grasso la scorsa estate, quando il calendario prevedeva quasi un match al giorno, rendendo labili e indefiniti i confini di una giornata calcistica.
“Seguire le partite ogni tre giorni è vedere il calcio in modalità binge-watching e consiste nella visione a dosi massicce, senza rispettare le scadenze settimanali – aveva scritto sul Corriere – Esattamente come è avvenuto nel mondo della serialità. Lo streaming ha creato non solo un nuovo modo di vedere, ma anche nuovi modi di produrre e nuove abitudini“. Insomma, è cambiato il modo in cui ci approcciamo al prodotto televisivo. E quindi anche al calcio. Per gli spettatori più giovani il palinsesto non esiste più. Il successo delle piattaforme in streaming, dove un contenuto di interesse può essere chiuso in un cassetto e tirato fuori in qualsiasi momento, ha mandato in frantumi la ciclicità sui cui si fondano i riti. Anche quelli sportivi. La chiave è vedere quello che si vuole. Quando si vuole. Possibilmente su un tablet o un cellulare. Un’abitudine che smentisce anche quello che è stato chiamato “football light”, ossia un allentamento del legame fra tifosi e club dovuto alla pandemia. Perché pensare che quando l’emergenza Covid-19 sarà finita tutto tornerà come prima è un esercizio di disperato ottimismo. Gli stadi si riempiranno di nuovo, certo. E gli schermi torneranno ad accendersi. Ma il futuro del calcio non è affatto al sicuro.
Secondo uno studio effettuato qualche tempo fa dalla McKinsey/Nielsen su un campione sparso fra Inghilterra, Spagna, Germania, Polonia, Olanda e India, il 27% dei ragazzi fra i 16 e i 24 anni ha dichiarato di non avere alcun interesse per il calcio (il 13% dice addirittura di odiarlo). Ma c’è un altro dato che rischia di cambiare, e anche parecchio, il futuro di questo sport. Solo il 49% dei ragazzi, infatti, ha risposto di seguire il calcio per “tifare“, mentre il 32% ha dichiarato di seguire questo sport perché interessato a uno specifico calciatore (e guarda solo il big match). Il legame territoriale che da sempre unisce un tifoso alla sua squadra locale è spezzato. I giocatori più famosi sono diventati stelle grandi quanto i club. E se cambiano casacca possono anche portarsi dietro i propri tifosi. La volatilità dei fan viaggia di pari passo con la loro soglia di attenzione. I ragazzi più giovani sono attratti da contenuti più agili e brevi, che possono essere visti (e poi dimenticati) sul proprio telefonino nell’arco di qualche minuto. Anche per questo un video su Tik Tok può diventare virale, mentre una partita di calcio che richiede un’ora e mezza di attenzione no. Anzi, finisce per fare da sfondo, da tappeto sonoro ad altre attività. Senza dimenticare i videogiochi, che offrono agli utenti un’esperienza immersiva ormai addirittura superiore all’originale, dove chi tiene in mano un controller può diventare il fabbro della fortuna del proprio club, può vestire i panni del calciatore, dell’allenatore e del direttore sportivo. Anche contemporaneamente. La vera sfida che si apre ai club, dunque, non è quella che porta a un trofeo, ma a recuperare l’erosione di consenso degli ultimi anni. Una partita che può essere vinta solo ripensando la fruizione stessa del calcio. In questo senso le app specifiche che forniscono contenuti originali e di qualità a pagamento sono ancora un terreno poco battuto da parte dei club. Ma sono anche una necessità indifferibile. Il pallone del futuro sarà più frammentato, più statistico, più interattivo (ma solo dietro a uno schermo). E poco importa se avrà perso buona parte del suo spirito originale. Qui è in ballo la sua stessa sopravvivenza.