Un presidente scaduto che ha mostrato il proprio squilibrio mentale di fronte all’intero mondo manda a morte una donna dopo una sospensione di appena poche ore per una sommaria perizia psichiatrica. Le esecuzioni capitali di persone detenute in prigioni federali statunitensi sono state bloccate dal 2003 al luglio del 2019, quando Donald Trump ha posto fine alla moratoria ordinando per bocca del suo ministro della Giustizia William Barr la messa a morte di cinque condannati.
La passione per la pena capitale è rimasta ben viva in Trump dopo la sconfitta del 3 novembre scorso. Da allora sono già quattro le iniezioni letali eseguite a livello federale, che hanno visto morire l’ispanico Orlando Hall, il quarantenne Brandon Bernard, condannato per un crimine commesso da minorenne, Alfred Bourgeois, gli ultimi due entrambi di pelle nera, e oggi Lisa Montgomery, prima donna in 70 anni. E siccome per Trump il Covid non esiste, le pratiche imposte hanno generato un focolaio nel Federal Correction Complex di Terre Haute in Indiana, facendo infettare vari membri della squadra di esecuzione. Joe Biden ha dichiarato di voler bloccare tutte le esecuzioni federali con il proprio mandato. Bisogna risalire a 130 anni fa per trovare condanne a morte eseguite nella fase di transizione di un presidente uscente e sconfitto.
Gli argomenti proposti dalla dottrina e dalla letteratura contro la pena di morte sono molti e variegati. Argomenti giuridici, etici, fattuali. La sua inutilità, ad esempio. Non è in fini utilitaristici che può trovare una giustificazione. Non è mai stata dimostrata alcuna efficacia deterrente della pena capitale maggiore di quella di altre pene. Negli Stati Uniti i tassi di criminalità prescindono del tutto dal fatto che nei singoli Stati la pena di morte sia ancora prevista, sospesa di fatto, abrogata nel diritto. I reati più gravi sono a volte commessi sull’onda di un impeto, spesso causato da uno squilibrio. Quando invece sono frutto di autentiche e organizzate attività criminali, si fondano sul presupposto di non essere individuati e non sarà la severità delle pene ad apportare dissuasione.
La verità processuale, per giunta, non coincide con la verità storica e non sempre vi è sovrapposta. Una pena che non ammette rimedi dovrebbe essere comminata esclusivamente da un’impossibile sentenza che non ammette errori. Inoltre: le moderne teorie della pena dall’Illuminismo in avanti riconoscono nella riabilitazione lo scopo ultimo della punizione. Rinunciarvi in partenza è una sconfitta prima di tutto dell’autorità statale e dei principi della democrazia. E ancora: la vita dei consociati è un bene indisponibile all’autorità. Nel patto sociale si depositano pezzi di libertà di ciascuno, ma non l’esistenza stessa.
Potremmo continuare. Ma la più forte ragione, quella che si auto-impone, per dire di no alla pena capitale non ha bisogno di studi statistici e di teorie del diritto. È quella per la quale Papa Francesco nel 2018 ha cambiato un pezzo del Catechismo della Chiesa Cattolica, al fine di rendere assoluta l’inammissibilità della condanna a morte, che “attenta all’inviolabilità e dignità della persona” la quale “non viene perduta neanche dopo aver commesso crimini gravissimi”. La ragione più forte per dire di no alla pena capitale è che uccidere un uomo è una barbarie. Se anche quest’uomo avesse compiuto pari barbarie, che non lo si faccia una volta ancora e che non lo si faccia nel nome mio.
Trump ha mandato a morte più condannati federali di quanto abbiano fatto gli Stati federati nei quali la pena di morte ancora si pratica. Il mondo assiste alla strage di un uomo squilibrato e delegittimato e non può fare nulla per fermarlo.