Esattamente quattro anni fa, il suicidio di Mark Fisher ha avuto l’impatto di una deflagrazione devastante, ma non inattesa, su tutti coloro che lo avevano riconosciuto come una delle menti più affilate e lucide della sua generazione, forse l’interprete più consapevole e profondo della realtà sociale e politica contemporanea.
Nel suo commosso ricordo del pensatore britannico, scritto pochi giorni dopo la sua scomparsa, esito tragico di una lunga depressione, Franco “Bifo” Berardi ha commentato: “Mark ha fatto quella cosa che non mi stupisce ma mi raggela, ha compiuto il salto alla dimensione del nulla […] Nelle cose che ho letto di Mark Fisher c’è insieme la coscienza del carattere sociale e storico della depressione, effetto doloroso del “there is no alternative”, (che in realtà vuol dire “there is no way out”) e la rabbiosa coscienza dell’inaccessibilità del corpo dell’altro, cioè di un’empatia che rende possibile la solidarietà sociale, la complicità delle persone libere contro il potere”.
Il fatto che uno degli intellettuali più ammirati della sua generazione, formidabile nell’analizzare i meccanismi perversi del sistema capitalistico, si sia suicidato sentendosi “un buono a nulla” è un monito inquietante, davanti al quale l’immediata tentazione è quella di un irredimibile sgomento.
Una resa collettiva, che con un bisticcio potremmo definire “capitolare davanti al capitalismo”, rappresenterebbe però un oltraggio proprio allo straordinario valore dell’opera di Fisher. Probabilmente, il modo migliore per onorare la sua figura è quello di invitare chi ancora non ne conosce il pensiero a esplorarne le opere fondamentali.
Fisher è divenuto in breve tempo noto dei primi anni Duemila, con lo pseudonimo di “k-punk“, grazie agli articoli pubblicati sul blog omonimo, in cui, spesso, l’analisi complessa e originale di opere musicali e cinematografiche diventava lo spunto per riflessioni più ampie sulle derive ormai fuori controllo della società capitalistica.
Dobbiamo a Minimum fax la possibilità di leggere in italiano la traduzione di molti dei suoi testi, pubblicati in vari volumi: Spettri della mia vita, in cui Fisher interpreta, alla luce del concetto di “hauntologia” coniato da Jacques Derrida nel saggio Spettri di Marx (e da lui declinato nel senso di “nostalgia per un futuro perduto”), fenomeni culturali radicalmente diversi ma egualmente significativi, dai Joy Division a Kanye West, da Shining di Kubrick a Stalker di Tarkovskij; Il nostro desiderio è senza nome, raccolta di scritti politici (tra cui anche l’introduzione al suo ultimo progetto incompiuto, Comunismo Acido) che colpiscono per la spietata consapevolezza e l’irriducibile radicalità;
The Weird and the Eerie, ultimo libro pubblicato in vita da Fisher, un’appassionata genealogia artistica che segue dalle loro radici alle espressioni attuali i due filoni principali dello “strano” (da Lovecraft a David Lynch, passando per Philip K.Dick) e dell’”inquietante” (da Kubrick a Nolan, passando per Brian Eno).
Senza dubbio, però, il suo libro più famoso è Realismo Capitalista (2009), pubblicato in Italia grazie a Nero: non è esagerazione definirlo un saggio esemplare per rigore logico e capacità analitica, uno dei testi fondamentali per comprendere il presente, una vera e propria “pietra miliare” come lo definì Simon Reynolds, altra grande firma emersa dalle galassie dei blogger di inizio millennio.
Partendo dal presupposto che “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo”, Fisher nota come “nel corso di più di trent’anni il realismo capitalista ha imposto con successo una specie di ontologia imprenditoriale per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione, andrebbe gestito come un’azienda”, e giunge alla conclusione che “il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è il consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine”.
A questo punto, è giusto concludere lasciando a lui la parola, con quella che dopo dodici anni rimane ancora una profezia drammaticamente inascoltata: “Se il neoliberismo ha trionfato assorbendo i desideri della classe operaia post-sessantottesca, allora una nuova sinistra potrebbe cominciare dal lavoro su quei desideri che il neoliberismo ha generato, ma che è incapace di soddisfare. […] Questa è una battaglia che può essere vinta, ma solo se a prendere forma sarà un nuovo soggetto politico”.