Un’ora e le ministre che si dimettono e non sono “segnaposto” rimangono zitte facendo appunto da segnaposto. Sessanta minuti per accusare Giuseppe Conte di badare ai like, alle dirette Facebook, alla politica pop, a fare mister Simpatia. Esattamente ciò che l’Italia ha imparato da lui: dalle sue dirette, dai suoi modi pop, dalle sue enormi capacità di essere un giocoliere spericolato nel potere e del potere. Sessanta minuti – gli ultimi sessanta di una serie di ore interminabili di enunciazioni, illustrazioni, ultimatum – per dire che il premier è accentratore. L’ha detto proprio lui, l’ex premier, che nel suo governo accentrava anche la decisione di dove mettere i cucchiaini da thè. Ora chiede di rispettare la liturgia del Palazzo, come un novello De Gasperi, lui che ha sfondato ogni regola, e sconvolto ogni prassi. Oggi, per dirne solo una, è contro i decreti legge, ieri ne sfornava a decine.

C’è qualcosa di allarmante nella misura con la quale Matteo Renzi avanza, senza memoria e anche senza prudenza, che lo porta a una doppiezza francamente insopportabile. E’ vero: la politica rispetta le regole del teatro, e questa interminabile, incomprensibile, incredibile crisi, che si svolge mentre il Paese si avvia nella più cruenta ondata della pandemia, pare proprio una grande prova di teatro, un palcoscenico sul quale finalmente si parla senza dire, si propone senza fare, si costruisce distruggendo.

Un notabile democristiano del secolo scorso, Luigi Gui, spiegò cosa fosse la vita politica. Disse: “E’ fatica senza lavoro, ozio senza riposo”.

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