Nella prima bozza del Recovery Plan (PNRR, ovvero Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), l’Italia viene definita un’economia avanzata a spiccata vocazione industriale (pag.13, par.1.3). L’affermazione suscita perplessità ed evidenzia già in questa apertura programmatica i vizi dell’impianto complessivo. Peraltro il giudizio appare in contraddizione con una considerazione successiva: l’industria culturale e il turismo sono i veri asset strategici dell’Italia. Nelle linee guida si ammette che la crescita del Pil è inferiore alla media europea, ma non si spiegano le ragioni, gli errori e le responsabilità che sono alla radice di questo risultato – tranne un inquietante accenno al rapporto troppo elevato fra spesa pensionistica e Pil.
Più che un percorso di trasformazione dell’economia manifatturiera in economia digitale viene tracciato un aggiornamento digitale della pubblica amministrazione (ma non dell’apparato politico legislativo ed esecutivo). Ne abbiamo un puntuale riscontro scorrendo le previsioni di settore: la salute diviene una misteriosa “telemedicina”, con l’introduzione del fascicolo sanitario elettronico (già attivo in diverse regioni, senza particolari effetti positivi sulla diagnostica), generici presidi rurali e un non meglio chiarito rimedio alle ammesse carenze delle RSA mediante cure a domicilio.
Quanto al settore lavoro, l’unico rilievo riguarda la riduzione del cosiddetto cuneo fiscale e l’ulteriore utilizzo della contrattazione decentrata, che però negli anni non è riuscita minimamente a tamponare le perdite, in termini di salario e diritti, della contrattazione nazionale.
Le 179 pagine dell’ultima bozza del 12 gennaio 2021 confermano le intenzioni annunciate, e soprattutto tengono conto della ripartizione concordata in sede comunitaria negli scorsi mesi: 65,4 miliardi di sovvenzioni e 127,6 miliardi di prestiti, che andranno con buona probabilità a incrementare il debito pubblico negli anni a venire. A questi 193 miliardi si sommano altri fondi europei derivanti da altri progetti per un totale di 223 miliardi. L’ammontare complessivo del piano è di 310 miliardi e verrà raggiunto con le leggi di stabilità 2021-2026. Quella di quest’anno sarà da 40 miliardi con 22 miliardi di debito.
Le sei missioni mettono in luce la sostanziale natura compromissoria del progetto, ovvero la piena consapevolezza di non avere affatto un vero piano per il prossimo decennio, ma solo un schema di rattoppo.
Rispetto alla prima versione, nelle nuove linee di indirizzo per la bozza sottoposta al Consiglio dei Ministri, il budget per la missione “salute” sale da 9 a 19,7 miliardi: 11,8 miliardi vanno alla digitalizzazione (ovvero alle infrastrutture delle Regioni, ma senza un piano per modificare il loro funzionamento) e i restanti 7,9 miliardi all’assistenza. Nulla è destinato alla prevenzione, e poco ai presidi territoriali, la cui carenza dovrebbe essere coperta dalla “telemedicina”. La spesa di assistenza sarà prevedibilmente assorbita dalle strutture private per anziani e malati cronici, chiamate a far fronte alla mancanza di intervento pubblico.
L’asse transizione ecologica vede un leggero calo rispetto alla prima bozza, da 73 a 67,3 miliardi: la spesa green sembra consistente, ma è pura apparenza. Dei 67,3 miliardi ben 30 sono destinati agli edifici da ristrutturare secondo regole antisismiche e all’efficientamento energetico, nonostante la ricaduta dal punto di vista ambientale sia tutta da dimostrare. Di fatto, buona parte della cifra viene utilizzata per il finanziamento del super bonus del 110%, a vantaggio dell’edilizia privata. Poco o nulla viene lasciato alla sistemazione dell’edilizia pubblica, aspetto che viene citato nel piano, ma non quantificato. Per il risanamento del territorio, comprese le acque, sono previsti 7 miliardi, in gran parte destinati ad opere di semplice rattoppo.
L’assenza di richiami all’acqua come bene comune e pubblico (nonostante il referendum vinto nel 2011) si sposa con investimenti per una più efficiente distribuzione a vantaggio delle aziende, priorità in perfetta sintonia con la logica del New Pubblic Management che sottende l’intero piano e la dice lunga su quale sia il vero programma ecologico decennale (imprese neoverdi e transizione: 6,3+18 miliardi). Ne abbiamo riscontro nelle infrastrutture che prevedono 23 miliardi (su 27) per TAV e manutenzione autostradale (manutenzione che i contratti di concessione pongono a carico dei concessionari, non solo Benetton ma anche Gavio e altri privati). In Sicilia si indica la velocizzazione (senza TAV sembrerebbe) della Palermo-Catania-Messina, ma nulla per le reti locali fortemente deteriorate; in Sardegna niente di niente. Le infrastrutture si riducono dunque ad alcune grandi opere pacificamente inutili (ma in compenso assai costose) e alla liberatoria dal costo di manutenzione delle autostrade per i concessionari.
Dopo la transizione ecologica, la voce più rilevante è quella relativa alla “Missione 1 – Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”, con una dotazione leggermente inferiore alla prima bozza per un totale di 46,18 miliardi così ripartiti: 11 miliardi per la digitalizzazione dell’amministrazione pubblica e 25 per la digitalizzazione e l’innovazione dell’apparato produttivo a favore delle imprese private. Viene aumentata a 8 miliardi la voce, assai generica, di “cultura e turismo”.
Per la scuola, vengono messi a disposizione 28,5 miliardi, una somma di gran lunga inferiore a quella di altri paesi europei. Inoltre, ben 11,7 miliardi vanno a beneficio del rapporto tra formazione e impresa, quindi ancora una volta un finanziamento ai privati. La restante somma (16,8) è per il potenziamento delle competenze e il diritto allo studio, per ridurre i divari territoriali e combattere il crescente tasso di abbandono, aggravato dal Covid. Sui nodi strutturali della scuola (eccessiva precarietà degli insegnanti, elevato rapporto studenti-docenti, concentrazione della formazione in plessi scolastici sempre più grandi come avviene, guarda caso, nella sanità), poco o nulla. Si rimanda agli esigui stanziamenti inseriti nella legge finanziaria per il 2021.
Tale scarsa attenzione alla scuola è un fardello sulle nuove generazioni, che rischiano di pagare più di altri il peso dell’attuale crisi. Anche nella missione “inclusione e coesione”, al di là delle vuote parole, i progetti proposti riguardano l’assistenza alla famiglia e nuovi fondi (7,5 miliardi) per le politiche attive dell’impiego, un capitolo, questo, che in Italia andrebbe affrontato in modo strutturale e non con interventi una tantum. Anche sul lavoro quindi, scarse sono le prospettive per i giovani.
In conclusione, si tratta di un piano che prevede una forte spesa di investimento a supporto delle imprese private, cioè ancora una volta una politica dell’offerta, che parte dal presupposto che la domanda sia in grado di adeguarsi. Ma questo è tutt’altro che scontato. L’emergenza economica-sanitaria ha ridotto la disponibilità di reddito delle famiglie e causato una riduzione significativa della domanda interna. Nulla infatti viene detto riguardo la garanzia di maggior stabilità di reddito: sia nella sanità che nella scuola non vi è un euro per ridurre l’elevato tasso di precarietà esistente.
Si può obiettare che gli assi portanti del piano devono essere in linea con i dettami decisi dall’accordo europeo del luglio scorso, ma l’Italia ha sicuramente esagerato nel definire obiettivi e incentivi del tutto a vantaggio dell’accumulazione privata e non del benessere collettivo.