di Riccardo Cristiano*
“La violenza è il contrapposto della forza, la violenza è anche la paura, la poca fede nell’idea, la paura delle idee altrui, il rinnegamento della propria idea”. Il 15 gennaio del 1921, un secolo fa, si aprì al teatro Carlo Goldoni di Livorno il congresso della scissione socialista, che avrebbe portato alla nascita del Partito Comunista d’Italia.
Di quell’evento storico la pagina più importante, ma poco conosciuta, è il punto nevralgico del discorso che pronunciò nel pomeriggio del 19 gennaio il leader della maggioranza riformista, Filippo Turati, che giunse alla frase appena citata dopo aver detto:
“La violenza, che per noi non è un programma, non può e non deve essere un programma, che alcuni accettano in toto e vogliono organizzare e preparare – i cosiddetti comunisti puri, chiamateli come volete – che altri accettano a mezzo, guadagnando tutte le conseguenze dannose e nessun utile che la violenza potrebbe per avventura, nella mente di quegli altri, contenere in sé, noi, come programma, la rifiutiamo. La dittatura del proletariato, per noi, o è dittatura di minoranza, e allora è imprescindibilmente dispotismo tirannico, o è dittatura di maggioranza, ed è un vero non senso, perché la maggioranza non è dittatura, è la volontà del popolo, è la volontà sovrana“.
E prosegue con “E da ultimo, altro segno di distinzione, il proposito della costrizione del pensiero allʼinterno del Partito, la persecuzione dellʼeresia, da cui nasciamo; nostra madre, o figliuoli, o fratelli carissimi, come direbbe un predicatore, la persecuzione della eresia nellʼinterno del Partito, che fu l’origine e la vita stessa del Partito, la sua forza rinnovatrice ad ogni istante, la garanzia che esso possa lottare contro tutte le forze intellettuali e materiali che gli si parano di fronte”.
Concludendo: “Tutte forme queste – violenza, culto della violenza, dittatura del proletariato, persecuzione dellʼeresia – che si risolvono in una sola: nel culto della violenza interna, dirò così, e esterna, e che hanno un solo presupposto – semplifichiamo la questione nella quale è il vero punto di ogni divergenza – e cioè quello – che per noi è lʼillusione – che la rivoluzione sociale, intendiamoci, non una rivoluzione politica, che abbatte e cambia sistema, sia il fatto volontario di un giorno o di un mese o di qualche mese […], mentre il fatto di ieri, di oggi, di sempre, che esce dalle viscere stesse della società capitalistica, di cui noi creiamo soltanto la consapevolezza, che noi possiamo soltanto agevolare nei molteplici adattamenti della vita politica, ma non possiamo né creare, né apprestare, né precipitare, che dura da decenni, che si avvererà tanto più presto quanto meno lo sforzo della violenza, quanto meno il culto della violenza provocante, bruta, prematura, e quindi destinata al fallimento, esasperando resistenze avversarie e provocando reazioni e contro rivoluzioni, le ritarderanno il cammino e l’obbligheranno di ritornare su se stessa”.
I punti posti insieme in queste poche righe da Filippo Turati sono tre: la violenza, l’eresia, la rivoluzione sociale. Tre punti che hanno una grande attualità, dimostrando che Turati capiva già allora che il pensiero rigido è nemico del pensiero, di qualsiasi pensiero.
A un secolo dalla scissione di Livorno, la cui memoria viene un po’ offuscata dai convulsi sviluppi politici, a Turati capita in destino un fatto strano: le sue posizioni, la sua visione, oggi sono condivise da quasi tutti coloro che si richiamano a quello che è stato il movimento operaio, ma lui non c’è, tutta l’attenzione è per i suoi avversari e il loro successivo cammino, Filippo Turati e quanto ha vissuto il suo campo quasi svaniscono.
Leader della maggioranza del tempo, Turati aprì il suo discorso con parole che ancora oggi hanno un attualissimo significato politico: “ Compagni amici, e compagni avversari; non voglio, non debbo dire nemici”. La storia del frazionismo e del riconoscimento nell’avversario del “rinnegato” è stata un po’ la sostanza della storia tormentata delle scissioni e delle contrapposizioni nel campo della sinistra.
Ma il discorso di Filippo Turati, riletto oggi, va al di là della storia del movimento operaio, riguarda tutto il Novecento e anche questo nostro tempo. La forza delle istituzioni democratiche americane si misura proprio in questi giorni con una violenza molto diversa, ma la violenza e la convinzione di poter arrivare a una rivoluzione “che sia il fatto di un giorno”, sono alla base di quanto accade o di quanto è accaduto.
L’idea di ortodossia, e quindi di eresia, è entrata nella politica all’inizio del secolo scorso e il discorso di Turati ha prefigurato e forse previsto tragedie immani, nel nome di un pensiero non rigido, di una non confusione tra nemico e avversario, di una prassi riformista che è stata respinta per decenni e che si fonda sul rapporto con la vita, che non è mai rigida.
Per questo colpisce oggi il riferimento, fuori dal campo del movimento operaio, alla religione, al cristianesimo, una grande proposta millenaria che “diventò misera, falsa, traditrice, ipocrita, nulla, impotente quando si appoggiò ai troni, alle armi, a tutte le forze della violenza”.
* Vaticanista di Reset, rivista per il dialogo