Cultura

Pasolini inaugura l’iniziativa dei Sibas: ricostruire i buchi neri della nostra memoria collettiva

La memoria collettiva del nostro Paese è piena di buchi neri. La narrazione appare frammentata, interrotta da eventi non raccontabili. Sono le pagine delle stragi mai del tutto svelate e mai punite, dei tentativi di golpe, del terrorismo, della strategia della tensione, degli omicidi eccellenti (Moro, Mattarella, Falcone, Borsellino, ecc.).

Dietro questi eventi traumatici c’è senza dubbio la regia di chi non ha mai accettato quel progresso democratico innescato dalla Costituzione del 1948 – prima di tutto le conquiste civili e sindacali – e ha scelto, in linea con la tradizione fascista, di fare politica con la violenza, con le bombe, col terrore. È giunta l’ora di svelare e di fare i conti con le fasi più opache della storia repubblicana.

E poiché normalmente queste vicende sono caratterizzate anche dall’azione di uomini dello Stato infedeli, da depistaggi e da indagini di polizia giudiziaria inquinate ad arte, è auspicabile che proprio i nuovi sindacati militari vogliano promuovere questo lavoro di ricostruzione, insieme alle forze migliori della società.

Va in questa direzione l’impegno del Sibas-Finanzieri, che ha scelto di avviare un ciclo di incontri su questo tema, partendo il 16 gennaio con la presentazione dell’ultimo libro di Simona ZecchiL’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini (Ponte alle Grazie, 2020) – sulla morte di Pier Paolo Pasolini, il poeta-giornalista, figlio di un ufficiale dell’esercito, che fu peraltro tra i primi intellettuali a comprendere le difficili condizioni lavorative dei poliziotti negli anni Settanta.

Perché è stato ucciso Pasolini? Fu massacrato dal giovane prostituto che aveva adescato alla stazione Termini? Quella notte tra il primo e il due novembre si era davvero appartato col suo assassino in un luogo così buio e pericoloso come l’Idroscalo di Ostia? Oppure fu vittima di un tranello e di un agguato? E qual è stato il vero movente di quel barbaro omicidio? Perché poi i testimoni non hanno collaborato? Perché le indagini e persino il processo sono stati manipolati? Sono questi gli interrogativi a cui la giornalista ha cercato di dare una risposta con un lavoro certosino durato dieci anni.

A 45 anni dal massacro di Pasolini, abbiamo la sensazione fondata che la scarna verità giudiziaria – il Poeta fu ucciso da un ragazzo 17enne col quale aveva avuto un rapporto sessuale – non corrisponde o corrisponde solo in parte a quello che è realmente accaduto. Quella notte – scrive Simona Zecchi – “un commando di sei persone, supportato da almeno altri sette complici, si occupa di ucciderlo barbaramente e di assicurarsi che non ne esca vivo. Tra loro esponenti dell’eversione nera, balordi e criminali”.

In quel periodo Pasolini si sentiva in pericolo perché aveva subito delle minacce di morte. Ad agosto erano state rubate alcune bobine del suo ultimo film e stava facendo tutto il possibile per recuperarle. Nel 1975 stava soprattutto lavorando a un’inchiesta giornalistica, molto scomoda, con la quale intendeva smascherare le trame che avevano condotto all’orribile strage di piazza Fontana del dicembre 1969. Da mesi riceveva le missive del terrorista nero Giovanni Ventura.

A partire dal 1974, in una serie di articoli pubblicati anche sul Corriere della Sera, sosteneva di conoscere i nomi dei mandanti politici di quella strage, ma di non averne le prove. Chiedeva di processare l’intera classe politica democristiana, per “indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione del denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia […] uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna”. Ma contestava anche l’inaccettabile silenzio e quindi la complicità del Pci, stigmatizzava le ambiguità della sinistra extraparlamentare.

Pasolini aveva accantonato la poesia per dedicarsi anima e corpo all’inchiesta sulla “madre delle stragi” fino al giorno della sua morte misteriosa. Egli aveva compreso bene che dietro le bombe di Milano e di Roma del 1969 c’erano – così disse in una intervista al TG1 mai mandata in onda – “finalità politiche per nulla oscure: il condizionamento della vita democratica di una nazione, il mantenimento del potere nelle mani degli apparati più reazionari, la lotta politica concepita come scontro senza quartiere e improntata al riscatto del terrore”.

In quel novembre del 1975, quando fu ucciso a Ostia, il giornalista Pasolini forse sapeva e aveva anche le prove.