Donatella Di Pietrantonio è un talento letterario incalcolabile. E Borgo Sud (Einaudi) è a tutti gli effetti il nostro libro dell’anno. Va bene, L’arminuta sì c’era, c’è stata, ma ora c’è questo romanzo qui. Un’opera che ti rivolta psicologicamente come un guanto, dito per dito, e che ti entra nell’inconscio, intercapedine per intercapedine, per lacerarti nel profondo ed affermare l’effetto taumaturgico e sconvolgente del potere della letteratura. La trama, sì, d’accordo. Un flashback da passato prossimo sul matrimonio della narratrice (senza nome, almeno questo ci è parso) della storia, protagonista di uno squarcio familiare recente, contemporaneo. Un momento di luce descrittivo, macchiato da una chiazza di sangue e da un accadimento casuale e superfluo. Poi subito il ritorno all’oggi, di notte, in una stanza d’albergo abruzzese, dove la narratrice inquieta ed insonne, tornata da Grenoble dove insegna all’università, si appresta ad un’urgente visita nella città costiera natia tra l’appartamento della sorella Adriana nel popolare e omertoso Borgo Sud, l’appartamento vista mare di via Zara condiviso fino a qualche anno prima con l’ex marito dentista Piero, luoghi appena distanti dalla rozza anaffettività dei propri anziani genitori. Di Pietrantonio immerge subito il lettore in una dimensione spaziotemporale continuamente sovrapposta e sovrapponibile tra presente e passato, in modo che il soffio del racconto ipnotizzi e attragga oltre la scansione narrativa classica del tempo che passa (noi abbiamo provato a scorgere il passare del tempo aggrappandoci alla crescita e all’età del piccolo Vincenzo, ad esempio). A pagina 20, ma anche 15, 13, 12, si è già perduti in questo gorgo del ricordo traumatico, del tentativo della narratrice di sfuggire, deviare, ricostruire altrove la propria identità e futuro, oltre il segno familiare della tradizione, scomposto tra maledizioni lanciate, durezza ed arcaicità materna e paterna, e prepotente diversità culturale (leggetevi la differenza sul concetto di “vacanze” per le differenti generazioni e capirete). Di Pietrantonio non giudica, non punta il ditino, non divarica pretenziosamente l’alto della narratrice con il presunto basso della famiglia d’origine, ma ne mostra con onesta e fredda brutalità le trame antropologiche solide radicate nel profondo, l’intrico nodoso e inestricabile che permeerà comunque la vita della protagonista, in questo teatro (dis)umano dell’incomprensione tra genitori e figli, tra moglie e marito, perfino tra sorelle, dove lo spazio, raggiunto e riassunto nella lontananza non basta mai per cancellare la propria nascita e provenienza. Di Pietrantonio usa mirabilmente la lingua scomponendola, differenziandola, tra l’accennata ricerca di una perfezione dell’italiano della narratrice, e un dialetto intriso di gergo e ruspante fierezza (quell’ “essa/esso” abruzzese per chi l’ha sentito è più forte della lama di un rasoio) che appartiene a sorella e genitori, con il risultato di un devastante realismo parlato e immaginato. Il flusso narrativo è, inoltre, un dettato sintetico, precisissimo, chirurgico, appoggiato con naturalezza a tanti scorticanti climax (la casa zeppa di gatti del pescatore Rafael, l’ex manesco compagno della sorella, è un attimo di sublime quasi orrorifico) e ad improvvisi rapidissimi sobbalzi, saltelli emozionali nei confronti serrati tra protagonisti che lasciano senza fiato. Di Pietrantonio, infine, e semplicemente, possiede il dono di una letteratura paranovecentesca (nostalgia, anzi malinconia dolce e sincera sì grazie) e un dna compositivo autentico dove in poche parole, in nemmeno un paio di righe, si passa da un breve scambio di battute, al fulminante ricordo della protagonista, al suo sguardo che si perde nell’osservazione fuori da una finestra, fino ad un odore, un rumore, una traccia sensibile della propria introspezione. Nulla è mai lasciato al caso, per strada, nel racconto, nascosto perché non serve. I fili si riannodano tutti, personaggi o situazioni sospese, per una perfezione millimetrica che travolge emotivamente il lettore per poi riportarlo comunque ai nastri di partenza. Perfino l’esergo (da Mio marito della Ginzburg) diventa fil rouge accomunante in fatto di mariti sbagliati per le due sorelle caratterialmente antitetiche. Voto: “Ho preso 10 zì, la prof non lo mette mai”.