"Trovo ingiusto chi ci accusa di aver mostrato più ombre che luci. Le luci ci sono e vengono mostrate in maniera profonda e senza filtri, racconta Carlo Gabardini, autore con Paolo Bernardelli della docu-serie ideata e scritta da Gianluca Neri e diretta dalla regista Cosima Spender, spiegando cosa c’è dietro il boom della prima docu-serie originale italiana Netflix
Sembrava una storia lontana e quasi dimenticata quella di Vincenzo Muccioli, un uomo di provincia visionario e carismatico ma al tempo stesso controverso e criticato. Invece, venticinque anni dopo la sua morte, la docu-serie di Netflix “SanPa”, ha riacceso in maniera clamorosa i riflettori sulla sua enigmatica figura e sulle origini e il passato di San Patrignano. Luci e ombre raccontate attraverso oltre venti testimonianze, 180 ore di interviste e una mole di immagini di archivio che squadernano una realtà in parte mai raccontata. Il risultato? Un successo clamoroso che si trascina appresso una valanga di polemiche e accuse, comprese quelle di chi smentisce il “metodo San Patrignano”, a cominciare da Letizia Moratti e dal figlio del fondatore della comunità, Andrea Muccioli. “Le luci ci sono e le abbiamo mostrare in maniera profonda e senza filtri”, racconta Carlo Gabardini, autore con Paolo Bernardelli della docu-serie ideata e scritta da Gianluca Neri e diretta dalla regista Cosima Spender, spiegando cosa c’è dietro il boom della prima docu-serie originale italiana Netflix.
Gabardini, partiamo dalla fine. Controverso, discusso, amato, difeso e contestato per i suoi metodi: dopo due anni di lavoro, lei che idea si è fatto di Vincenzo Muccioli?
Ho cambiato idee tantissime volte, a seconda di come spostavamo l’obiettivo, scoprivamo cose e ci confrontavamo tra di noi. Ci sono stati momenti in cui mi sono persino spaventato per la mia posizione: mi è sembrato di essere montagne russe emotive e in fondo quello è lo stesso percorso che fa lo spettatore guardando SanPa. Alla fine ognuno decide dove posizionarsi e cosa pensare di Muccioli, rispetto al quale non ci sono tesi precostituite.
Eppure ci sono stati molti giudizi tranchant sulla serie: vi accusano di aver voluto mostrare più le ombre che le luci. A cominciare da Andrea Muccioli, il figlio di Vincenzo, secondo cui il vostro non è un documentario ma “pura e semplice fiction”.
Trovo ingiusto chi ci accusa di aver mostrato più ombre che luci. Le luci ci sono e vengono mostrate in maniera profonda e senza filtri. Il fatto stesso che San Patrignano esista ancora oggi e che molti ex tossicodipendenti siano vivi e si siano costruiti una nuova vita, mi pare di per sé una luce enorme e clamorosa.
Muccioli l’ha sentito dopo l’uscita della serie?
Non ho avuto contatti con lui.
Facciamo un passo indietro. Per tutti lei è ancora l’iconico Olmo di Camerà Café, ma nella sua carriera c’è di tutto, dai testi degli spettacoli di Sabrina Guzzanti a quello su Churchill. Come l’ha coinvolta Gianluca Neri, l’ideatore della serie, in questo progetto?
Da tempo lavoriamo con Gianluca su storie e documentari e da molto parlavamo di San Patrignano, un tema che ci appassiona e ci affascina da quando ne Cuore, la rivista satirica, fu uno dei pochi giornali a pubblicare nel ‘93 una serie di inchieste sulla comunità. Ci è venuto in mente di fare un piccolo esperimento: al bar o per strada abbiamo chiesto alle persone che cosa ne pensassero di Muccioli e quasi tutti avevano un’idea precisa su di lui ma poi non sapevano più nulla, se fosse vivo o meno, se San Patrignano esistesse ancora o no.
Perché avete deciso di farci una serie?
Perché in un’Italia eternamente divisa per fazioni, non si discute mai su un argomento specifico ma si diventa solo di parte. C’erano e ci sono due muri opposti rispetto a Muccioli e per noi era importante fare un docu-serie – e non una fiction – che raccontasse una grande storia italiana e da più punti di vista possibile.
Nonostante questo, vi accusano di essere stati parziali nel racconto.
Ma parziali rispetto a cosa? Quando lo dicono, non so da quale delle cento parti mi stanno tirando.
Sia sincero: l’effetto valanga delle polemiche ve lo aspettavate?
Ci aspettavamo una grossa reazione perché questa storia non è mai stata raccontata dall’inizio ed è un rimosso collettivo del nostro paese. SanPa non parla solo di droga ma parla del nostro Paese, dell’uomo forte al comando, del potere, del bisogno di avere una fede, dei media e soprattutto dell’assenza dello Stato che bollò la droga come una tematica tabù e creò emarginazione e stigma sociale.
Lei che ricordi ha degli anni ’80, degli “zombie” che si bucavano agli angoli della strada?
Sono cresciuto in una famiglia dove si faceva terrorismo rispetto ai danni dell’eroina. Ricordo mio padre che ce li indicava per strada, ricordo l’odio sociale per i drogati e la paura di andare a giocare al parco e trovare una siringa. Ognuno di noi ha avuto amici morti per droga: abbiamo bisogno di ricordarci di questa epoca che fa parte del nostro vissuto comune.
Tornando a Letizia Moratti, storica sostenitrice di San Patrignano assieme al marito Gian Marco, al Corriere ha precisato di non essersi sottratta all’intervista: “Ho dato alla regista la mia disponibilità”. Non crede sia un’occasione mancata non aver raccolto la sua testimonianza?
Certamente sì, perché avrebbe potuto dire moltissimo. Non c’era affatto un desiderio di non averla. Io, se potessi, un’intervista glie la farei domani perché avrei tante cose da chiederle.
Il giudizio della Moratti, in ogni caso, è impietoso: ha definito la serie “un’occasione persa”.
Mi sarei aspettato una reazione ancora più forte.
In un comunicato ufficiale, i dirigenti di San Patrignano sono stati molto duri definendo la serie “un resoconto unilaterale” che rischia di avere effetti destabilizzanti e negativi.
Mi sarei stupito e preoccupato se avessero detto che era una serie bellissima.
Perché non avete mostrato il presente, con il lavoro di recupero, prevenzione e di reinserimento sociale che la comunità fa oggi?
Perché SanPa è il primo atto. Al di là della battuta-auspicio, penso che questa sia davvero una storia complessa della quale bisogna comprendere la genesi e l’evoluzione. Poi c’è un secondo capitolo, quello che riguarda gli ultimi 25 anni di San Patrignano: già il fatto che esista è un dato incontrovertibile e positivo, che sta stimolando molte persone ad informarsi sul presente della comunità.
Un ruolo fondamentale ce l’hanno i testimoni che avete intervistato. Chi l’ha colpita di più?
Nutro un profondo affetto nei confronti di tutti, anche di quelli che non abbiamo mostrato. Ho in mente la loro faccia che quasi ci diceva: ‘Ma dove siete stati fino a ora?’. Ho molta stima per l’onesta con cui si sono liberati di un peso.
La testimonianza più potente è senza dubbio quella di Fabio Cantelli, ex tossicodipendente e poi addetto stampa di San Patrignano, che quasi ipnotizza con i suoi ricordi e i suoi ragionamenti lucidi.
Stavamo intervistando un altro protagonista quando in biblioteca ho trovato un libro di Cantelli, La quiete sotto la pelle. Dopo la folgorazione immediata abbiamo voluto coinvolgerlo. Lui stesso, con il suo percorso straordinario, fa il giro due volte. Le sue parole, sul finale della serie, dicono tutto: ‘Io sono vivo grazie a San Patrignano e nonostante San Patrignano’.
La serie Netflix racconta anche molto della televisione italiana degli ultimi trent’anni, dall’evoluzione del talk alla tv del dolore – emblematica la scena in cui Muccioli va a recuperare una ragazza scappata dalla comunità e la telecamera indugia sulle lacrime e gli abbracci. Che rapporto aveva Muccioli con la tv?
Muccioli era molto confident con il mezzo, lo sapeva usare benissimo facendo arrivare il suo ragionamento, utilizzando parole chiave e messaggi carismatici. Lo abbiamo visto visionando circa 800 ore di archivi personali – tra cui quelli di Red Ronnie – e altrettanti di news che ci hanno dato una visione d’insieme piena di sfaccettature. Il lavoro di ricerca e di selezione del materiale è stata fondamentale e sì, consente anche di vedere com’è cambiata la nostra tv.
Quella di San Patrignano è una storia molto italiana: come sarà accolta dal pubblico straniero.
Ce lo chiediamo da due anni e mezzo. Penso che come tutte le storie profondamente locali, in realtà finisca per essere globale e di tutti, come hanno dimostrato molte produzioni Netflix. Del resto temi come la tossicodipendenza, l’uomo forte al comando, le carenze dello Stato, sono argomenti in grado di diventare paradigmatici.
In conclusione: SanPa è una serie su Vincenzo Muccioli o su San Patrignano?
È una serie su tutti noi. Su come decidiamo di risolvere i problemi che travolgono la società e su come ci confrontiamo con l’assenza dello Stato. È una storia solo apparentemente provinciale che in realtà ha una portata gigantesca perché parla di valori universali.