Compie mezzo secolo un uomo in grado di rivoluzionare un’era del pensare. Dal suo primo Barcellona al falso nueve, dall'alter ego Mourinho al tiki-taka. Poi le difficoltà al Bayern Monaco e le nuove sperimentazioni al City. E pensare che tutto partì da una frase: "Non hai le palle per farlo"
Quella frase lo sta facendo impazzire. Rimbalza nella sua testa da più di un’ora. Ancora. E ancora. E ancora. Sono soltanto dieci parole. Una manciata di lettere che rappresentavano la sua più grande certezza. E delle quali adesso non è più tanto convinto. Perché due mesi prima Pep Guardiola si era presentato nell’ufficio di Joan Laporta e gli aveva sputato in faccia il suo pensiero: “Dovresti affidarmi la panchina della prima squadra”. Il presidente del Barcellona era rimasto immobile per qualche secondo. Aveva fissato l’allenatore che aveva portato il Barça B al primo posto nella quarta serie del calcio spagnolo, ne aveva soppesato l’ego, era andato alla ricerca di qualche sua crepa. Poi aveva risposto: “Te la sentiresti?”. È stato allora che Guardiola ha pronunciato quella frase. “Sì, sei tu che non hai le palle per farlo”. Non il modo migliore per conquistare il proprio capo. O forse sì. Perché Joan Laporta le palle ce le aveva eccome. Mentre i suoi emissari stavano trattando con José Mourinho, il presidente aveva composto il numero di Johan Cruyff. E gli aveva chiesto un consiglio. Quando aveva attaccato il telefono era già tutto deciso.
Guardiola sarebbe stato il nuovo allenatore del Barcellona. Con buona pace di chi non lo reputava all’altezza di quell’incarico. L’uomo di Santpedor aveva ringraziato e si era portato dietro due ragazzi della seconda squadra. Sergio Busquets e Pedro Rodriguez. In uno dei primi incontri Pep aveva distribuito ai suoi giocatori tre fogli stampati. Dentro c’era molto di più dei suoi schemi. C’era un codice etico. Perché l’estetica sarebbe stata una diretta conseguenza di quei comportamenti. Per due mesi i blaugrana avevano corso e smoccolato sotto il sole. E avevano anche iniziato a fantasticare. Almeno fino a quel giorno.
È il 31 agosto 2008. La prima giornata di campionato. La prima partita di Guardiola. E i contorni del sogno sembrano già scolorire in un buio incubo. Al Numancia basta poco per battere i catalani. Un tiro di Mario. Un gol. E poi più niente. Così mentre Pep rientra negli spogliatoi del Nuevo Estadio Los Pajaritos quella frase comincia a rimbalzare nella sua testa. Qualche minuto dopo si presenta davanti alle telecamere e dice: “E’ stato un grande scivolone. Dobbiamo solo migliorare la fase offensiva“. Qualcuno garantisce che il catalano non si rialzerà. Altri giurano che è solo una questione di tempo prima che la lettera di licenziamento spicchi il volo. Invece Guardiola mantiene la sua promessa. Il Barça inizia a segnare una media di tre gol a partita. E infila una vittoria dopo l’altra. Il 2 maggio del 2009 si presenta al Santiago Bernabeu da primo della classe. Con il Real che arranca quattro punti dietro.
La sera prima della partita Guardiola aveva chiamato in disparte Messi. E gli aveva comunicato la sua idea. Per quella partita serviva qualcosa di diverso. Così lo avrebbe schierato al centro dell’attacco. E avrebbe dirottato Eto’o sulla destra. Lì l’argentino avrebbe potuto dialogare con Xavi e Iniesta. Avrebbe potuto trasformarsi in un apriscatole, creare superiorità, far invecchiare improvvisamente Cannavaro e Metzelder. Il giorno dopo Benzema impiega meno di un quarto d’ora per portare avanti il Real. Sembra la fine. Ma solo per 4 minuti. Henry pareggia al 18’. Poi il Barcellona dilaga. Vince 2-6. È un successo che umilia gli avversari e che consegna il titolo ai catalani. Ma è soprattutto la vittoria delle idee di Guardiola, è l’atto di nascita del falso nueve che sarà poi codificato nella frase: “Il nostro centravanti è lo spazio“. Dieci giorni più tardi il Barcellona vince un altro trofeo. Ancora in rimonta. Ancora con un punteggio largo. 1-4 all’Athletic Bilbao. E capitan Puyol può alzare la Coppa del Re sotto il cielo di Valencia.
È chiaro che quella squadra non è fatta per vincere. Ma per scrivere la storia. La conferma arriva a Roma, il 27 maggio. Finale di Champions League. La sera prima della partita Guardiola manda un sms ad Arrigo Sacchi. “Venti anni fa ero al Camp Nou ad ammirare il tuo grande Milan, adesso tocca a me. Faremo bene”, scrive. E ha ragione. Sul prato verde dell’Olimpico il Manchester United di Alex Ferguson si schianta contro Eto’o e Messi. Il tabellone segna 2-0, ma c’è qualcosa che non riesce a raccontare. È la freschezza di un calcio soverchiante che fa apparire gli avversari come dinosauri. E che fa sperare nella loro estinzione. Il giorno dopo la finale i giornali parlano di un gioco che è un inno alla gioia.
Ma è anche un calcio basato sulla tristezza. Quella di ragazzi che durante la pubertà vengono strappati a padri e madri per entrare alla Masia. Quella di un allenatore che sviluppa un’ossessione per la perfezione. Prima di ogni partita Guardiola scende nella pancia della sede del Barcellona e si chiude in un seminterrato. Non ci sono finestre, ma solo un tappeto, una lampada e un televisore. Pep inserisce il dvd che gli è stato dato dai suoi collaboratori. Lo osserva per ore. Studia gli avversari, ma in realtà studia se stesso. Impara che il calcio è un’Idea. E che variare non vuol dire per forza tradirla. La sua squadra diventa un quadro futurista, sempre in movimento anche quando viene fotografato. Impara a giocare con lo scorrere del tempo. Lo dilata con un’orizzontalità esasperata e poi lo accelera improvvisamente con una verticalizzazione.
Il suo Barcellona va oltre l’Ajax del calcio totale, oltre il Milan di Sacchi. “Le conoscenze che ho trasmesso ai miei giocatori non sono neanche mie – dice – appartengono a tutti gli allenatori che ho avuto”. Il suo pallone si trasforma in una teoria filosofica onnicomprensiva. C’è spazio per tutti. Per Cruyff e Mazzone. Per Juamma Lillo e Fabio Capello. Le due fasi di gioco si cuciono insieme. Si attacca per difendere. Si difende per attaccare. La nuova stagione porta una Supercoppa Uefa e una spagnola. Poi il 19 dicembre del 2009 batte ai supplementari l’Estudiantes e centra il sextete. Al fischio finale si ritrova in lacrime. Le stesse che versava da bambino davanti alla televisione. Guardava in continuazione Pinocchio. E finiva sempre per provare empatia per quel burattino, per star male per quella vita che si accaniva contro di lui. “Non voglio essere un esempio di niente – dice – voglio solo svolgere il lavoro che amo tanto”. È una frase sospesa fra verità e bugia. Perché lui e il Barcellona sono già un simbolo. Di un popolo che vorrebbe l’indipendenza, certo. Ma anche di una idea.
Le sfide con il Real di Mourinho amplificano questa identificazione. Lo stato centrale contro la voce dell’autonomia. L’illuminismo del tiki-taka del Barcellona contro l’oscurantismo delle ripartenze dei blancos. Il successo assume una carica morale. E il Real del portoghese, che già era sporco e cattivo, diventa anche così volgarmente brutto. Una guerra di religione che trasforma Mourinho in un eretico, in un uomo disposto a vincere anche con i mezzi più sordidi, e Guardiola in un santone. Durante un discorso al parlamento della Catalogna parla di sé come il prescelto, come l’eletto dalla dirigenza blaugrana. Per qualcuno è lo Steve Jobs del calcio. Per altri è l’Obama della Catalogna. Nei trenta mesi successivi l’ex centrocampista vince ancora tantissimo. In patria (due scudetti, una Coppa del Re, due Supercoppe), in Europa (una Supercoppa e una Champions League) e intorno al globo (un mondiale per club). Tutto senza mai smettere di evolversi. I moduli sono un dettaglio, il suo 4-3-3 diventa un 3-3-4. Se potesse, metterebbe in campo 11 centrocampisti. Contro il Santos, nella finale dell’Intercontinentale, si ferma a 7. E appallottola in Santos grazie a un netto 0-4.
Poi decide di dire basta. “Il tempo logora tutto anche i sogni. E io mi sento logorato – dice – Per questo è meglio che sia qualcun altro a guidare il Barcellona”. Nell’estate del 2012 dice addio al Barça. Sei mesi più tardi viene nominato tecnico del Bayern. Jupp Heynckes vuole godersi la pensione. Solo che prima di dire arrivederci al calcio vince la Champions League. Un successo che l’arrivo di Pep sembra poter eternare. Ma Monaco di Baviera è molto diversa da Barcellona. Pep non può trapiantare il suo credo, ma può predicare la sua Idea. L’evangelizzazione prevede conduzione della palla, ricerca di linee di passaggio, continuo movimento. Un impianto fluido che non può essere inchiodato a uno schema fisso. Pep fa, disfa, stravolge. Lahm viene trasformato in un centrocampista centrale. Kimmich in un terzino. La dittatura di Guardiola è solo interna. Perché in Champions arrivano solo delusioni.
Nel 2015 il catalano viene travolto dalla sua stessa eredità. Un destino riservato ai grandissimi ma che difficilmente entusiasma i tifosi. Il Barça di Luis Enrique lo elimina in semifinale e poi piega la Juve. L’anno dopo Guardiola si accasa al City. Un altro trasferimento nobile. Un’altra rivoluzione da compiere spendendo milioni. A centinaia. La conquista dell’Europa sembra passare per una strada sicura, invece diventa una peregrinazione del deserto. La Champions come ossessione. Più per gli altri che per lui. Guardiola sembra aver trovato il suo nirvana nella sperimentazione. Mescola ancora i suoi uomini in campo. Con i suoi concetti annacqua l’integralismo del calcio di Sua Maestà. Due titoli e qualche coppetta in 4 anni non bastano a convincere la critica. I suoi avversari sottolineano il divario fra investimenti e risultati. Lui lascia correre. “Ho bisogno di nemici, di persone che mi odino – dice – Per un allenatore consiste nel vendicarsi e nel cercare di superarsi“. Ed è stato proprio questo il carburante di un uomo in grado di rivoluzionare un’era. E che oggi compie mezzo secolo.