“Crediamo che Papa Francesco stia cambiando il modo in cui si muovono il Vaticano e la Chiesa”. Quello che scrive monsignor Dario Edoardo Viganò, ex prefetto del Dicastero per la comunicazione e attualmente vicecancelliere della Pontificia Accademia delle scienze e della Pontificia Accademia delle scienze sociali con specifica competenza per il settore della comunicazione, è una lucida analisi della cosiddetta rivoluzione Bergoglio.

Nel volume fotografico Papa Francesco. Un uomo di parola (Libreria Editrice Vaticana), che racconta il backstage del film su Bergoglio affidato da monsignor Viganò al regista tedesco Wim Wenders, emerge un ritratto fedele e autorevole di ciò che ha significato per la Chiesa cattolica e per il mondo intero l’elezione del cardinale arcivescovo di Buenos Aires.

Il prelato sottolinea come, già “all’alba del pontificato di Francesco”, “quei pochi mesi erano stati sufficienti a far percepire al mondo la portata della rivoluzione in atto. Fin dai primi istanti del suo pontificato – la scelta del nome del santo d’Assisi, quel ‘fratelli e sorelle, buonasera’ alla prima apparizione in pubblico dalla loggia di piazza San Pietro la sera del 13 marzo 2013 – Bergoglio si era rivelato portatore di un nuovo stile: in poco tempo si era dimostrato capace di sovvertire dall’interno i tradizionali codici comunicativi, giungendo a rinnovare radicalmente l’immagine del papato”.

Monsignor Viganò racconta che “nelle settimane successive” alla fumata bianca, “dalla prospettiva di prossimità privilegiata e davvero unica che avevo con il Santo Padre grazie al tipo di lavoro che svolgevo, ebbi modo di vedere in azione la sua speciale capacità relazionale, scoprendo che il dono di sapersi fare prossimo con l’altro, di abbandonare le distanze, è la ragione per cui ogni sua parola e ogni suo gesto risultano comprensibili e accessibili a tutti, credenti e non credenti. Ma il cambio di passo proposto da Papa Francesco non si fermava alla superficie, né si risolveva in una semplice operazione di lifting: mirava a riformare in profondità tutta la Chiesa, affinché ritrovasse freschezza e autenticità”.

Per Viganò, infatti, “chi aveva avuto l’opportunità di seguirlo da vicino fin dai primi momenti lo aveva d’altra parte sperimentato personalmente: per Bergoglio l’azione è tutt’uno col pensiero e col sentire, col suo arrivo era stata proprio la concretezza della vita quotidiana in Vaticano a dover essere risintonizzata, rivista nelle modalità e nello stile”. E sottolinea, inoltre, “la sua modalità comunicativa che accorcia immediatamente le distanze: in intimità, attraverso un gioco di sguardi, il suo e quello delle persone”.

Per il primo prefetto del Dicastero per la comunicazione “con il passare degli anni era divenuto maggiormente evidente che quella di Papa Francesco era una rivoluzione comunicativa che disegnava un percorso di rinnovato dialogo con il mondo, affrontando in maniera diretta le questioni centrali della società”. Una riflessione di grande attualità mentre Bergoglio si appresta a tagliare il traguardo dei suoi primi otto anni di pontificato. Tutti vissuti con il diretto predecessore, il Papa emerito Benedetto XVI, all’interno del Vaticano, nel Monastero Mater Ecclesiae, ma non certo con la sua opposizione.

Nonostante questa inedita convivenza, Francesco è riuscito ad affermare il suo stile, umano, comunicativo e pastorale, il suo magistero con la preferenza per gli scartati dalla società. Ma è evidente che dopo anni segnati anche da numerosi scandali all’interno della Chiesa cattolica, soprattutto in Vaticano, nel cuore del potere, ovvero nella Segreteria di Stato, una riflessione sulla comunicazione del pontificato bergogliano, soprattutto a livello istituzionale, appare ormai assai evidente oltre che urgente.

A farla non sono i sociologi cattedratici o i comunicatori di professione, ma lo stesso Francesco che, come è ormai noto a tutti gli osservatori, ha impresso recentemente un nuovo slancio al rapporto diretto che egli ha con i media e attraverso di essi con la gente semplice, lontana dal tradizionale e forse ormai desueto linguaggio ecclesiale. Una necessità per un Papa che la pandemia, come lui stesso ha rivelato, ha “ingabbiato” sottraendolo all’abbraccio con le folle dalle quali ha sempre tratto ossigeno per superare gli scandali e le infedeltà dei suoi più stretti collaboratori.

Francesco così, recuperando una non tanto antica prassi papale in voga fino a San Paolo VI, avoca a sé la guida di alcuni organismi vaticani. Non in base al diritto, come era fino alla grande riforma della Curia romana montiniana, ma di fatto. Bergoglio diviene così l’autentico prefetto del Dicastero per la comunicazione e il suo unico portavoce convocando direttamente i giornalisti di cui si fida e ai quali si affida, fissando le interviste, concordando le domande e ovviamente dando loro le risposte senza che alcuno spin doctor, ufficiale, ufficioso o autonominatosi, possa censurarlo.

È il modo, sicuramente inedito per un Pontefice, con cui Francesco dribbla ogni controllo senza così dover far cadere alcuna testa per rimpiazzarla. Quando ha voglia di arrivare alla gente, quella semplice che a messa forse non ci va nemmeno, alza il telefono e fissa un’intervista. Pretendendo un’unica condizione: che il Dicastero per la comunicazione resti all’oscuro di tutta la partita. È uno stile sicuramente vincente per un pontificato che vuole arrivare davvero a tutti. Senza filtri.

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