A leggere le dichiarazioni sull’impatto zero e sulla “sostenibilità” dei lavori per i Mondiali di sci 2021 e le Olimpiadi Milano-Cortina del 2026, rilasciate da Susanna Sieff, Sustainability Manager di Cortina 2021 su Repubblica del 28 dicembre scorso, c’è da rimanere basiti.

In questo articolo si decantavano le “magnifiche sorti e progressive” che dovrebbero risarcire il sito Unesco delle Dolomiti delle devastazioni per la realizzazione delle nuove piste da sci e della nuova viabilità ai piedi delle Tofane (contestate duramente dai movimenti ambientalisti) attraverso quelle che Susanna Sieff descrive come azioni compensative, basate su “calcoli molto complessi, certificati da un ente indipendente, secondo cui dovremmo arrivare a coprire il 100 per cento delle emissioni dirette generate dai campionati”.

Recentemente alcune associazioni ambientaliste nazionali – oltre a Italia Nostra anche Mountain Wilderness Italia, Wwf, Libera, Peraltrestrade e anche qualche gruppo locale come quello per il Parco del Cadore – si sono prese la briga di rispondere a Susanna Sieff, riportando il tutto nella sua giusta prospettiva.

Chi ha seguito la distruzione sistematica del paesaggio di Cortina perpetrato in questi ultimi anni in funzione dei Mondiali di sci alpino – e in previsione delle Olimpiadi del 2026 – non può non interrogarsi sulla buona fede di chi sembra non vedere lo scempio che è sotto gli occhi di tutti.

Ad una valutazione più attenta, però, la questione centrale va oltre le parole pronunciate, non si sa se per convincimento o per ruolo, e tocca la sostanza stessa dell’idea di sostenibilità. Si tratta infatti di due opposte visioni, di due diversi modi di intendere la sostenibilità. Semplificando: sostenibilità con o senza il territorio.

Chi la intende senza il territorio può fare benissimo i bilanci ambientali come li propone Susanna Sieff, nei quali un albero vale un albero, e non conta “dove” e “come”, per cui è possibile tagliare un albero (o diecimila) purché se ne ripianti una stessa quantità in un altro posto, oppure emettere CO2 in montagna purché se ne intrappoli altrettanta nei sedimenti sotto una laguna.

È il principio del mercato dei diritti emissivi, che compra e vende diritti di inquinamento, in un bilancio globale in cui alla fine chi ha soldi impegna altri (che non ne hanno o che ne hanno meno) a controbilanciare i propri impatti, senza cessare di inquinare il territorio in cui risiede. I più forti mettono altri, anche molto lontano, a servizio delle loro arbitrarie libertà (la nuova frontiera dell’imperialismo ecologico).

È ancora la vecchia economia, in cui esiste sempre la scambiabilità ma mai una geografia con i bisogni della natura e della vita, in cui chi detiene il potere si sente in diritto di imporsi con universali e indistinte regole di produzione, consumo, delocalizzazione, trasporto, accumulo, scarico e attività finanziarie varie, ovunque, senza distinzioni legate alle differenze geografiche (fisiche, naturalistiche, meteo-climatiche, geomorfologiche, idrogeologiche, socio-economiche, culturali).

Ecco che allora si possono distruggere i boschi delle montagne di Cortina purché si immagini un’azione “compensativa” un centinaio di chilometri più a sud (in linea d’aria) nella Laguna di Venezia, in Val Dogà, una valle da pesca dove la Fondazione dei mondiali sosterrà un progetto di allevamento del pesce con tecniche di tradizione d’altri tempi che comporta l’assorbimento di CO2 nei fondali marini.

Restano, però, insoluti alcuni problemi. Chi decide quale territorio può essere sacrificato (Cortina) in favore di un altro (Laguna veneta)? Chi controllerà l’effettivo risultato sul lungo periodo? E in base a quali parametri verrà contabilizzato l’impatto sociale? E se le cose non andassero come descritto, chi interverrà per ovviare ai problemi?

Chi invece intende la sostenibilità con il territorio considera le comunità e i sistemi che ne risultano (socio-economici, ecologici, meteoclimatici) nella loro unicità e peculiarità. In questa visione poco o nulla è vendibile, traslabile, fungibile se non a rischio di elevati costi in perdite e disfunzioni non reversibili non solo di paesaggio ma anche di storia, di cultura, di memorie, di identità.

In questa prospettiva il paesaggio è da intendere nella sua accezione più evoluta e consapevole, difficilmente compensabile, sostituibile; in alcuni casi è forse restaurabile, ma in misura limitata e per lo più solo esteticamente, e assai raramente nella sua struttura, nei suoi metabolismi, nella sua economia.

In breve, la “sostenibilità” senza tenere in conto il territorio è facilmente misurabile ma è inconsistente, esteriore, di contabilità cartacea istantanea, calcolabile meccanicamente e per parti separate, mentre quella con il territorio è strutturale, di lunga provenienza storica e di misurata proiezione al futuro, cosa non da facile propaganda, come invece lo è la prima.

Susanna Sieff può anche continuare a raccontarsela e a raccontarcela con toni trionfalistici, in linea con tante voci a livello comunale, provinciale, regionale e nazionale, ma ci sia consentito di diffidare di questa triste contabilità dei diritti emissivi, che non potrà mai effettivamente ripagare i territori degli scempi perpetrati.

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