Stare seduto accanto al fuoco e aspettare che “questi brutti giorni finiscano”. A Farhan (nome di fantasia) non occorrono grandi discorsi per spiegare come scorre la sua vita nel campo profughi di Lipa. O meglio, sullo scheletro di ciò che ne resta, dopo che lo scorso 23 dicembre una lingua di fuoco ha inghiottito in poche ore il complesso di tende e container in cui circa 1.500 migranti vivevano in attesa del momento propizio per tentare il “game”, il passaggio del confine con la Croazia. Appena 25 anni, pakistano, Farhan chiede scusa per lo scarno vocabolario del suo inglese, con cui fatica a restituire l’indicibile. E per tenere accesa la conversazione, al posto dei suoni preferisce ricorrere alle immagini: “Qui è dove dormiamo, ogni notte, in circa dieci persone“. Quello che appare nello spazio di una foto è una tenda improvvisata di un paio di metri quadrati, le pareti sono teli bianchi sottilissimi e al centro dell’alloggio giace il residuo di un fuoco che servirà ravvivare per resistere alla notte. Negli angoli si scorge una fila di coperte schiacciate le une contro le altre, ci vuole qualche secondo di troppo per realizzare che ciò che avvolgono sono sagome di esseri umani. Sui tappeti sistemati per terra, Farhan e i suoi compagni di sventura si svegliano e si arrangiano, in silenzio sperano che la morte passi oltre, che l’Europa rispolveri il capitolo sui diritti umani. E che si muova.
“Ci facciamo la doccia con l’acqua gelata. E se a qualcuno di noi capita di stare poco bene, riceviamo solo un antidolorifico dal dottore del campo. Non abbiamo neanche i bagni. Non so cosa dire. Se non che questo è l’inferno“, conclude senza fronzoli Farhan che, insieme ad altri migranti, nei primi giorni di gennaio ha iniziato uno sciopero della fame. L’obiettivo, ça va sans dire, era ottenere condizioni più dignitose. Ma tutto si è risolto in un nulla di fatto. Sono alcune ong a preoccuparsi di tenere cuciti insieme gli ultimi brandelli di decenza, grazie alla forza di attivisti, cooperanti, volontari. Tra loro c’è anche Silvia Maraone, di Ipsia-Acli, una delle poche organizzazioni insieme a Caritas che porta avanti un aiuto costante, attraverso la consegna di legna, l’acquisto di generi alimentari e la distribuzione di pasti accanto alla Croce rossa locale. “Le persone che oggi vivono a Lipa si sono organizzate con dei rifugi fatti di teli di plastica o di legna. Qualcuno ha ricevuto delle tende dall’esercito bosniaco, a cui spetterebbe la cura della logistica – racconta Maraone, che da mesi osserva in diretta l’esacerbarsi della situazione -. Solo che attualmente non ci sono responsabilità ben definite, né budget chiari stanziati”.
“Il viaggio verso l’Unione europea? Rischio di congelare nei boschi” – La gestione raffazzonata di questa crisi emersa sul finir del 2020 dà l’impressione errata che si sia trattato di un evento inaspettato, inevitabile. La realtà è però diversa. E chiunque abbia anche solo una vaga idea della crisi umanitaria che da anni si consuma lungo la Rotta balcanica sa che quanto successo nel cantone bosniaco di Una-Sana lo scorso 23 dicembre era scritto da mesi. “I fatti di Lipa sono una tragedia annunciata. Già qualche mese fa l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) aveva fatto sapere che quel luogo non era idoneo alla stagione invernale – prosegue Maraone -. Al momento della sua apertura nella primavera del 2020 l’accordo stretto con il governo bosniaco prevedeva che sarebbe stato quest’ultimo a preoccuparsi degli allacci elettrici, di metterlo in sicurezza”. Tuttavia, nel tempo, nessun passo è stato fatto in direzione di una civilizzazione di quel luogo sorto a una manciata di chilometri dal confine croato, nel cuore di una natura impervia che ora rischia di trasformarsi nel letto di morte di decine di uomini. “L’Oim aveva deciso che a fine dicembre avrebbe abbandonato la struttura per non essere complice delle condizioni di vita che quelle persone avrebbero sperimentato. Proprio quel giorno c’è stato un rogo di cui non si conoscono ancora le cause e che hanno reso più fragili le condizioni di vita dei migranti, che con queste temperature non possono affrontare il viaggio per raggiungere l’Unione europea. Oltre alle violenze della polizia croata e dei respingimenti illegali, rischierebbero il congelamento nei boschi“.
Il caos nella gestione della crisi – Nel frattempo, la modalità di rispondere allo stallo con il fuoco sperimentato anche in Grecia si sta trasformando in inquietante abitudine: dopo i fatti di Lipa, le fiamme sono tornate a bruciare anche lo scorso 8 gennaio, nel campo profughi di soli uomini di Blažuj, nel cantone della Bosnia occidentale. In quel caso non ci sono state gravi conseguenze, ma il secondo rogo in pochi giorni è, per Maraone, un chiaro segnale che le cose stanno sfuggendo di mano.
Ciò che va affrontata oggi è un’emergenza a due facce: da un lato c’è quella umanitaria, riflessa sui migranti (in maggioranza pakistani e afghani) costretti a vivere senza acqua potabile e senza servizi igienici, per di più nel pieno di una pandemia. Dall’altra, quella di una Bosnia-Erzegovina abbandonata a una condizione di semi-anarchia: “Il Paese non è stato in grado di prendere alcuna decisione perché è lacerato. C’è un popolo talmente schiacciato dalla crisi sociale ed economica che ormai i leader di tutte e tre le parti in causa (serba, croata e musulmana) fanno quello che vogliono, senza perseguire alcun obiettivo comune. Le cose lì non funzionano da anni – conclude Maraone -. Adesso, però, è come se il nemico non fosse il politico locale ma l’Unione europea. I cittadini sono convinti che Bruxelles voglia pagare il loro governo per “fare il lavoro sporco”, e costringerlo a tenersi “criminali e delinquenti”. La gente di lì ci tiene a sottolineare che “non si faranno comprare””.
Il nodo politico – La complessa amministrazione del Paese, composto da due entità (Repubblica serba e Federazione croato-musulmana), a loro volta suddivise in dieci cantoni, gioca un ruolo tutt’altro che marginale nella precarietà dei circa 9mila migranti rimasti bloccati in Bosnia, 6mila dei quali registrati nei campi di Iom, mentre i restanti cercano di sopravvivere in sistemazioni informali. Per comprendere l’attuale emergenza in Bosnia occorre infatti considerare le frizioni che ci sono tra leader cantonali e nazionali, già emerse con il campo profughi di Biha, il Bira, chiuso lo scorso settembre su decisione delle autorità del cantone Una-Sana ma senza l’approvazione del governo centrale. “Il Bira era stato aperto per volontà dello Stato – spiegava in autunno Peter Van der Auweraert, rappresentante dell’Oim in Bosnia-Erzegovina -. E dovrebbe restare di sua esclusiva competenza ogni misura presa a riguardo. Quindi, partendo da questo presupposto, la chiusura del campo da parte del cantone Una-Sana è stata un’azione illegale”. La riapertura temporanea del Bira per dare una sistemazione a chi adesso dorme all’addiaccio era una delle ipotesi più logiche. E sarebbe stata adottata, molto probabilmente, se non avesse acceso una violenta protesta da parte dei cittadini di Biha che, per scongiurare questa mossa, organizzano regolarmente un picchetto davanti all’ex campo profughi. “Noi dell’Oim abbiamo cercato di trovare con tutte le parti coinvolte una soluzione umanitaria. Ma fungiamo solo da rete di supporto, ed è necessario che, gradualmente, tutto il controllo dei campi passi allo Stato bosniaco. Non c’è ragione perché non possa accadere. L’unica cosa necessaria è la volontà politica di assumersi la responsabilità. Dall’Unione europea continuerebbero ad arrivare i fondi, quindi il problema non è economico ma prettamente politico. E bisogna muoversi – sottolineava – Van der Auweraert un paio di mesi fa -. È la prima volta da quando ricopro questo ruolo che temo davvero che la gente morirà per strada”.