È una città in stato di assedio quella che si prepara a dire addio a Donald Trump e dare il benvenuto al nuovo presidente Joe Biden. Oltre 20mila uomini della Guardia Nazionale sono arrivati nei giorni scorsi a Washington. Dovranno gestire la sicurezza dell’evento di Inaugurazione, insieme all’FBI e ad almeno tre corpi di polizia. Il National Mall, da dove tradizionalmente la folla assiste al giuramento del nuovo presidente, è chiuso al pubblico da venerdì scorso e resterà chiuso fino a oggi. Il palco ai piedi del Capitol, dove Biden giurerà e da dove farà il discorso d’insediamento, è pronto, ma tutt’intorno è stato eretto un complesso sistema di blocchi, barricate, filo spinato, recinzioni che superano i due metri. Il timore di nuovi attacchi da parte delle milizie della destra radicale è alto.
Donald Trump lascia Washington D.C come ci era arrivato, in un falò di recriminazioni, rabbia, violenza, che a questo punto non sono più soltanto verbali. Il presidente uscente, nel suo discorso di investitura del 2016, aveva parlato dell’ «American carnage», del massacro americano, e il massacro americano si è materializzato in queste ore. Si sa che il tema principale del discorso di Biden di oggi sarà l’unità, la necessità che «gli americani tornino a parlarsi», come il nuovo presidente ha detto più volte in questi mesi. Improbabile che, nell’immediato, l’appello abbia qualche probabilità di successo. L’America che Trump lascia è un Paese di profonde divisioni, che il processo per l’impeachment, che dovrebbe partire tra pochi giorni al Senato, rischia di rendere ancora più marcate.
Alcuni fatti danno il senso della tensione che si respira in queste ore. FBI e Pentagono stanno esaminando migliaia di profili dei membri della Guardia Nazionale che garantiranno la sicurezza dell’Inaugurazione. Si vuole essere certi che tra questi non ci siano individui che abbiano legami con i gruppi dell’estrema destra. «Non esiste al momento alcuna indicazione di intelligence che faccia pensare ad infiltrazioni, ma non lasciamo nulla di intentato», ha spiegato Christopher Miller, l’attuale, ancora per poche ore, segretario alla difesa. In realtà, è emerso che almeno due persone che hanno partecipato all’attacco al Congresso, il 6 gennaio, erano membri attivi della Guardia Nazionale. Il timore è quindi quello di infiltrazioni, e che le persone che dovrebbero garantire l’incolumità del nuovo presidente la mettano invece in pericolo.
Una cosa peraltro emersa nelle indagini in corso è l’alto livello di coordinamento e di preparazione militare dell’assalto al Congresso. Non si è trattato di un evento improvvisato, bensì attentamente pianificato, che ha potuto godere di connivenze tra i membri della polizia di Capitol Hill, della Guardia Nazionale, probabilmente tra gli stessi deputati repubblicani. Sei persone tra le oltre cento arrestate nelle scorse ore per l’assedio al Congresso hanno legami più o meno diretti con l’esercito americano, e bandiere con stemmi militari venivano sventolate dagli assalitori. Nelle scorse ore il capo di stato maggiore dell’esercito, generale Mark A. Milley, ha inviato una lettera straordinaria a tutti i membri delle forze armate, ricordando loro che Joe Biden sarà tra poche ore il loro commander-in-chief e che i soldati sono legati a un giuramento alla Costituzione.
È questo probabilmente che rende questo momento così difficile e particolare. La sensazione che «il nemico», la possibile minaccia alla democrazia americana, e all’incolumità del suo massimo rappresentante, il presidente, non venga dall’esterno ma dall’interno del Paese, delle sue strutture e istituzioni. La cosa ha peraltro un’evidenza fisica nelle immagini di queste ore. Migliaia di soldati sono accampati da giorni dentro e fuori il Congresso. Qui mangiano, dormono (spesso per terra, sui pavimenti di marmo di Capitol Hill), qui vigilano contro possibili nuovi attacchi. Ci sono pochi paralleli storici che riescano a dare il senso della situazione. Alcuni ritornano al 1861, quando Abraham Lincoln vinse le elezioni e sette Stati del Sud scelsero la secessione. Lincoln doveva arrivare a Washington in treno ma i suoi piani di viaggio vennero rivoluzionati dalla scoperta di un complotto per ucciderlo a Baltimora. Il presidente arrivò in incognito nella capitale, all’alba del giorno dell’Inaugurazione, accompagnato soltanto da due guardie del corpo.
Mentre Biden si prepara all’entrata, Trump organizza invece la sua uscita; che sarà inusuale, in linea con i suoi ultimi quattro anni. Il tycoon ha chiesto che gli venga tributato un saluto da parte delle forze armate nella Joint Base Andrews, la base aerea del Maryland da dove tradizionalmente parte l’Air Force One. L’evento, cui parteciperà una piccola folla di invitati, è fissato per la mattina, in modo da non sovrapporsi all’Inaugurazione di Biden, che inizierà a mezzogiorno. Sembra che Trump abbia preteso una parata militare, la banda e il tappeto rosso. Si sta considerando anche il saluto con 21 colpi di cannone, di solito riservato agli eventi più importanti. Dalla base aerea del Maryland, Trump e la moglie Melania partiranno quindi per raggiungere la residenza di Mar-A-Lago, in Florida, dove intendono stabilirsi. Anche questa è una rottura importante di un protocollo antico. Di solito il presidente uscente e la moglie accolgono la nuova coppia presidenziale alla Casa Bianca. La First Lady uscente fa fare un giro alla First Lady che le succederà. Quindi tutti partono per presenziare all’Inaugurazione. Questa volta non sarà così. Donald Trump e Melania saranno lontani quando Biden giurerà. Un ulteriore schiaffo da parte di Trump alla legittimità del suo successore. Un episodio che rende l’obiettivo dell’unità dell’America, cosi faticosamente cercata da Biden, poco più che un miraggio.
I PRIMI GIORNI DELL’AMMINISTRAZIONE BIDEN – Anche in questo caso abbondano i paralleli storici. In molti sono convinti che ci siano pochi precedenti che riescano a dare il senso delle enormi difficoltà che Biden si troverà a gestire. Il nuovo presidente entra in carica nel mezzo di una pandemia che ha fatto quasi 400mila morti, con un Paese devastato dalla crisi economica e sociale, dopo l’assalto al Congresso ed elezioni che non sono ritenute legittime da milioni di americani. Il momento della storia che viene quindi subito alla mente è il 1933, quando Franklin Delano Roosevelt giurò di fronte a un Paese devastato da disoccupazione e povertà e con i fascismi europei in ascesa.
Proprio per questo Biden deve subito, nelle prime ore della sua amministrazione, dare il senso del cambiamento, di una nuova era che guardi al futuro con maggiore ottimismo. Il primo giorno del suo mandato dovrebbe quindi essere occupato da una serie di ordini esecutivi con i quali vengono ribaltate alcune delle politiche più controverse di Trump. Ci si attendono provvedimenti per rientrare negli accordi di Parigi sul clima; per riprendere i negoziati sul nucleare iraniano; per cancellare il bando all’arrivo da alcuni Paesi a maggioranza musulmana; per riunire i minori che sono stati separati dai loro genitori alla frontiera.
Prevista anche la definitiva cancellazione della progettata, e contestata da ambientalisti e comunità locali, Keystone XL pipeline, l’oleodotto che avrebbe dovuto collegare il Canada al Golfo del Messico. Barack Obama l’aveva bloccato nel 2015. Nel 2017 la sua costruzione era stata rilanciata da Trump. Ora Biden ci mette, probabilmente per sempre, una pietra sopra. Il provvedimento forse più forte che il nuovo presidente dovrebbe presentare nelle prime ore del mandato riguarda però l’immigrazione.
Il team di Biden ha preparato un progetto di legge che prevede un percorso verso la cittadinanza per circa 11 milioni di persone. Entro cinque anni ci sarebbe l’assegnazione della green card (in presenza di tutta una serie di requisiti, come il regolare pagamento delle tasse e l’assenza di procedimenti giudiziari). Dopo altri tre anni arriverebbe la cittadinanza. Un percorso ancora più veloce viene riservato nel progetto di legge ai cosiddetti Dreamers, i giovani condotti da minori negli Stati Uniti e che qui vivono da anni, senza un regolare permesso. Biden decide quindi di tentare, da subito, quello che non riuscì a George W. Bush e a Barack Obama: e cioè il passaggio di una nuova legge sull’immigrazione, che dia certezza di vita a milioni di persone e che rilanci uno dei temi al cuore del progetto americano.