“Ricercato consigliere comunale di Roma, considerato dagli inquirenti un tramite per la raccolta di tangenti tra le strutture dell’Anas e gli imprenditori: è Lorenzo Cesa”. È il 6 marzo del 1993 e con questo lancio Ansa il politico di centrodestra, all’epoca democristiano, fa il suo esordio nella cronaca giudiziaria nazionale. E quindi ventotto anni prima dell’ultimo avviso di garanzia, relativo all’inchiesta anti – ‘ndrangheta della procura di Catanzaro, che lo ha spinto a dimettersi da segretario dell’Udc.

Dopo un paio di giorni da quel take di agenzia, come ricostruiva qualche tempo fa Marco Lillo sul Fatto Quotidiano, Cesa si consegna e va nel carcere di Regina Coeli. “Si è conclusa nel pomeriggio la latitanza di Lorenzo Cesa, il consigliere comunale democristiano di Roma. Era ricercato sin da venerdi scorso con l’accusa d’aver preso una tangente per un appalto di lavori assegnati dall’Anas in Sardegna”, raccontano gli archivi Ansa dell’epoca. Dopo la fine della breve latitanza, Cesa riempie un verbale che rimarrà famoso per il suo esordio: “Oggi mi sento più sereno e intendo svuotare il sacco”. Che tipo di sacco vuole svuotare? Dice che l’imprenditore Ugo Cozzani voleva parlargli per “ottenere dal ministero la conclusione della pratica mediante trattativa privata e consequenziale affidamento dei lavori” per una strada Anas: “Chiesi al ministro che cosa dovevo riferire al Cozzani e mi sentii rispondere che gli dovevo chiedere il 5 per cento dell’importo dell’appalto. Dopo qualche cda dell’Anas, i lavori furono affidati al Cozzani”. Cesa spiega di aver accompagnato l’imprenditore nello studio dell’ex ministro Giovanni Prandini, suo capocorrente detto anche “Prendini”: “Da solo mi portai nell’ufficio del ministro, nelle cui mani consegnai la capiente borsa in plastica rigida di colore grigio piuttosto spessa”.

La scena si ripete con l’impresa Monaco per i lavori dell’Anas in Basilicata: “Una busta di carta rigida sigillata contenente il denaro destinato al ministro e da me a questi consegnata senza neppure aprirla”. Poi pure Vittorio Petrucco della Icop Spa, “una cartella rigida contenente denaro, il cui importo non mi fu detto né io lo contai”. Dopo la sua “ampia confessione”, nel 2001 il Tribunale di Roma lo condanna a 3 anni e 3 mesi per corruzione aggravata. Due anni dopo, però, nel 2003 la corte di Appello annulla le condanne per un cavillo procedurale: nel frattempo, infatti, è uscita una sentenza della corte Costizionale che ha stabilito in pratica come il Tribunale dei ministri è competente non solo per Prandini ma anche per gli altri. Il processo deve ricominciare ma per il giudice gli atti compiuti sono ormai “inutilizzabili“. Nel 2005 il Gip di Roma ordina il “non luogo a procedere”.

Cesa si salva. E nel 2005 viene eletto segretario nazionale dell’Udc, in quel momento componente essenziale della coalizione che sostiene Silvio Berlusconi, forte del consenso di Pierferdinando Casini e Totò Cuffaro, poi condannato in via definitiva per favoreggiamento alla mafia. Al vertice del partito del neoscudocrociato, Cesa dura 16 anni: fa il deputato, l’europarlamentare, il leader di coalizione. Nel 2018 è tra i fondatori della lista “Noi con l’Italia“, la cosiddetta “quarta gamba” del centrodestra. Quindi si accorda con Forza Italia per fare una lista unica alle Europee del 2019, ma non viene rieletto. Nel frattempo finisce sotto inchiesta più volte. Anche dalla stessa procura di Catanzaro, con l’allora pm Luigi De Magistris che lo iscrive nel fascicolo Poseidone. “Anche allora segretario nazionale dell’Udc. In questi dieci anni sta sempre là, mentre io sono stato trasferito, perché indagavo su Cesa, Galati e Pittelli. Dopo dodici anni, un pò alla volta, sta venendo fuori la verità, il tempo è galantuomo”, dice l’attuale sindaco di Napoli. Ventotto anni dopo la prima, Cesa ha un’altra grana giudiziaria.

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