Le riammissioni informali dei richiedenti asilo dall’Italia alla Slovenia sono illegittime. Lo ha stabilito per la prima volta il Tribunale di Roma accogliendo il ricorso di un cittadino pachistano che nell’estate del 2020 era stato trovato dalla polizia italiana a Trieste e respinto oltre confine, prima in Slovenia, poi in Croazia e infine in Bosnia. Un “respingimento a catena” partito dall’Italia durante il quale il migrante racconta di essere stato picchiato con calci e manganelli ricoperti di filo spinato dagli agenti dei paesi balcanici. Secondo i giudici l’uomo ha diritto a chiedere domanda di protezione internazionale al nostro Paese. “Lo Stato italiano non avrebbe dovuto dare corso ai respingimenti informali in mancanza di garanzie sull’effettivo trattamento che gli stranieri avrebbero ricevuto negli altri paesi – si legge nell’ordinanza emessa dal giudice Silvia Albano il 18 gennaio che accoglie il ricorso presentato dagli avvocati Anna Brambilla e Caterina Bove della rete Asgi – primi fra tutti il diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti e quello di proporre domanda di protezione internazionale”.

Una possibilità che nel luglio del 2020 è stata negata al migrante arrivato a Trieste dopo il viaggio lungo la “rotta balcanica”. In fuga dal Pakistan per le persecuzioni subite a causa del suo orientamento sessuale, dopo mesi di cammino, era riuscito ad arrivare in Italia dove avrebbe voluto chiedere asilo. Ma è rimasto soltanto poche ore sul suolo italiano. Insieme ad alcuni connazionali, stava ricevendo le cure mediche offerte da un gruppo di volontari, quando è stato avvicinato da agenti in borghese e accompagnato in una stazione di polizia. Manette ai polsi e telefono sotto sequestro. “Poi sono stati caricati su un furgone e portati in una zona collinare e intimati, sotto la minaccia di bastoni, di correre dritti davanti a loro, dando il tempo della conta fino a 5” si legge nell’ordinanza. Dopo circa un chilometro erano stati fermati dagli spari degli agenti sloveni che li avevano arrestati e caricati su un furgone. Non sono serviti a nulla i tentativi di richiedere la protezione internazionale. Vengono chiusi in una stanza per la notte senza cibo, acqua e possibilità di accesso ai servizi igienici per poi essere lasciati in Croazia, uno dei luoghi più difficili per i migranti. Qui, una volta presi in consegna dalla polizia, “vengono picchiati dagli agenti con manganelli avvolti dal filo spinato e presi a calci sulla schiena” prima di essere portati al confine con la Bosnia dove le violenze subite non si placano. “Gli agenti cominciano un conto alla rovescia per poi colpirli spruzzandogli addosso spray al peperoncino e aizzando il pastore tedesco che era con loro che li aveva inseguiti cercando di morderli”. Il respingimento a catena iniziato in Italia termina quindi nel campo bosniaco di Lipa. Ma d’estate il campo è tutto pieno e così inizia a vagare per il paese finendo a dormire in un rudere di Sarajevo, in Bosnia, dove tutto era iniziato.

Una storia comune a migliaia di migranti che in questi mesi sono in viaggio lungo la rotta balcanica. Nel 2020 sono state oltre 1300 i riammissioni dall’Italia alla Slovenia sulla base di un Accordo bilaterale tra i due governi stipulato nel 1996 e mai ratificato dal Parlamento. “La Slovenia come la Croazia sono considerati paesi sicuri sul piano del rispetto dei diritti umani e delle convenzioni internazionali” aveva detto il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, rispondendo nel corso del question time alla Camera il 13 gennaio. Una posizione che sembra non soddisfare il Tribunale di Roma che scrive: “Il ministero era in condizioni di sapere, in considerazione dei report e delle inchieste dei più importanti organi di stampa internazionali, dei report delle Ong, delle risoluzioni dell’ Unhcr e da ultimo della lettera del 7 dicembre 2020 della Commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa sulla situazione dei migranti in Bosnia, che la riammissione in Slovenia avrebbe comportato a sua volta la riammissione informale in Croazia e il respingimento in Bosnia, nonché che i migranti sarebbero stati soggetti ai trattamenti inumani e alle vere e proprie torture inflitte dalla polizia croata”.

Il comportamento dell’Italia è quindi considerato “illegittimo” dal Tribunale poiché viola “numerose norme di legge”. Innanzitutto la riammissione informale “non può mai essere applicata nei confronti di un richiedente asilo senza nemmeno provvedere a raccogliere la sua domanda”. In secondo luogo, questa prassi avviene “senza che venga emesso alcun provvedimento amministrativo” negando “sostanzialmente allo straniero di poter esercitare i suoi diritti e il diritto a un ricorso effettivo”. Infine violano il divieto alle espulsioni collettive previsto dalla Carta del diritti fondamentali dell’Unione europea impedendo così “l’esame individuale” delle singole posizioni. L’ordinanza permetterà al cittadino pachistano di fare ingresso in Italia per poter presentare la richiesta di asilo “riaffermando l’importanza dell’articolo dieci della nostra Costituzione e dunque del diritto di asilo” come spiega l’avvocata Anna Brambilla, che insieme alla collega Caterina Bove, ha seguito il caso. Ma l’auspicio è quello di “di vedere un cambio di atteggiamento delle autorità italiane e di far aumentare l’attenzione nei confronti delle frontiere interne dell’Unione Europea che sembrano esistere ancora, ma solo per alcuni tipi di persone, come i migranti”

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