C’è un disegno di legge che potrebbe contribuire a lanciare in modo sistemico uno dei settori del mondo agricolo più vitali sotto il profilo produttivo e avanzati sotto quello ambientale e culturale. Si sta parlando del ddl sull’agricoltura biologica. Un testo che definisce la produzione biologica come “attività di interesse nazionale con funzione sociale e ambientale”.
E’ un articolato interessante, anzitutto in un senso: propone una visione decisamente progressista dell’agricoltura biologica; con il logico corollario di un ruolo centrale riconosciuto alla ricerca scientifica e all’innovazione. E con l’ulteriore, conseguente, previsione di appositi e sistematici fondi per la ricerca stessa. E’ la direzione di marcia giusta, specie in un periodo nel quale capita che venga associato – pur in forme e per vicende apparentemente remotissime da questi temi, a tacer d’ogni altra considerazione – il biologico agli sciamani.
L’agroecologia del terzo millennio non può rinunciare, per ottusa spocchia scientista, a tante buone pratiche e saperi dal basso solo perché privi di pedigree epistemologico. Ma non può neanche pensare seriamente che le criticità – quando non vere e proprie emergenze – sistemiche dell’agricoltura nell’era dei cambiamenti climatici si possano affrontare solo con le nude mani “della tradizione” (qualunque cosa significhi questa categoria nel 2021).
Biologico deve diventare, per definizione, sinonimo di “fondato scientificamente e avanzato tecnologicamente”. Il che costituirebbe, peraltro, anche la risposta più efficace agli anatemi di certa accademia che continuano a piovere sul bio, scagliati dalle varie confraternite della scienza presunta pura. Attacchi che, nella loro condanna pregiudiziale della pratica biologica come nuova forma di agricoltura diffusa e non più di nicchia, non è improprio definire come tecnicamente reazionari. Le parole ci sono: usiamole!
Questo disegno di legge è stato approvato dalla Camera nel dicembre 2018. Ci ha impiegato più di due anni per essere licenziato dalla Commissione Agricoltura del Senato, con qualche emendamento. Le buone leggi, in questo paese, non godono proprio di una corsia preferenziale.
Come che sia, qualche giorno fa questo ddl è uscito dalle secche delle Commissioni in cui, di fatto, si è arenato per il tempo che si è detto.
Due anni non sono pochi e il passaggio in aula al Senato potrebbe non essere una passeggiata di salute, per gli ulteriori tempi e per gli emendamenti possibili, non foss’altro per l’aria poco salubre che tira in questi giorni in Parlamento. E poi ci sarebbe di nuovo la Camera…. Ma, tutto sommato, questa resta una buona notizia. Ancora parziale, però, molto parziale.
Per provare a garantire una rete minimamente adeguata di sostegno e promozione dell’opzione agroecologica occorrerebbe l’approvazione di una griglia di altri interventi normativi, in tempi men che biblici:
1) la riforma dei reati agroalimentari – che contiene, tra l’altro, precise disposizioni di tutela penale del biologico – il cui progetto organico fu presentato dalla Commissione Caselli ormai più di cinque anni fa;
2) il Piano d’azione nazionale che dovrebbe realizzare le condizioni legali per l’uso sostenibile dei pesticidi: lo impone la legislazione europea, ma questo non ha impedito che la bozza di Pan discussa dai portatori di interessi ben più di un anno fa oggi sia scomparsa da tutti i radar;
3) una radicale riforma della normativa nazionale in materia di sanzioni per l’abuso, di ogni tipo, dei pesticidi, che oggi è quasi integralmente fondata su illeciti e sanzioni di mera natura amministrativa e non penale.
Questioni e lacune sulle quali si registra un desolante vuoto di attenzione e spesso anche di conoscenza nel dibattito pubblico; non di rado anche negli ambienti, sociali ed economici, che dovrebbero essere più sensibili a queste tematiche.
Com’è evidente, oltre alla buona notizia da cui si è partiti, in ambito normativo non ci sono ancora particolari ragioni di ottimismo sulle sorti dell’agricoltura virtuosa, quella che dovrebbe contribuire a curare le ferite del pianeta producendo cibo buono e sano; quelle ferite che sono state cagionate, in dosi massicce, anche da quell’altra agricoltura, quella “convenzionale”.
Invece, sarebbe tempo che i ruoli si rovesciassero: che quelle convenzionali, o anche solo diffuse, diventassero le pratiche agroecologiche. Lo riconoscono ormai anche la Fao e la Commissione Ue. Lo invocano le frange più consapevoli e attive delle giovani generazioni. Ma soprattutto lo richiede quel pianeta ferito. Non è poco, forse.