Iacopo Luzi, 32enne originario di Fermo, è arrivato negli Usa nel 2015 con un visto per studenti e una borsa di studio. Dopo un'esperienza a Gerusalemme rientra in Italia per inseguire la sua passione, ma trova solo porte chiuse. A quel punto, dall'altra parte dell'oceano, si apre una possibilità che gli cambia la vita
“Gli Stati Uniti mi hanno dato la possibilità di non abbandonare il mio sogno, in Italia avrei dovuto cambiare mestiere”. Iacopo Luzi ha 32 anni ed è originario di Fermo (Marche). Emigrato oltreoceano dal 2015, oggi è senior journalist per il network Voice of America. “Ho trovato qualcuno che ha creduto in me e non era scontato”, dice. Poco dopo l’inizio della pandemia ha ottenuto una green card, il documento che permette ad uno straniero di risiedere illimitatamente sul suolo americano. Per lui, “un traguardo”. In pochi anni con la sua telecamera ha raccontato proteste in paesi sudamericani, uragani, raccontato la quotidianità, e oggi è uno dei volti che racconta la politica a stelle e strisce a milioni di spettatori. “L’Italia? Se ne avessi la possibilità tornerei perché sulla qualità della vita il nostro Paese è il migliore del mondo”.
Terminata l’esperienza mediorientale deve però tornare in Italia e spera che l’esperienza accumulata possa aprirgli le porte giuste. “Nulla. Ormai ero quasi rassegnato all’idea di dover rinunciare”, racconta. E invece una porta si apre. “La versione spagnola di Voice of America, un’agenzia di stampa governativa che trasmette in 46 lingue, mi dà un possibilità”. I primi tre mesi sono difficili e lo stage non prevede rimborsi: “Per guadagnare qualcosa la sera facevo il cameraman per un piccolo media al Congresso. Vivevo nella periferia di Washington per risparmiare, in un quartiere dove la sera mentre tornavo a casa per sentirmi più al sicuro tiravo fuori il treppiede nel caso di un’aggressione. A volte, la notte, si potevano sentire spari”. Ma l’impegno e il sacrificio lo premiano: arriva il contratto. “Se ti impegni e hai voglia di fare carriera questo è un Paese che può offrire molto. Qui, a differenza dell’Italia, la maggioranza della popolazione vede il giornalismo come una vera professione. E viene pagata”. Nel 2018, dopo vari servizi dal Nicaragua durante le rivolte contro il presidente sandinista Daniel Ortega – “dove ci hanno anche arrestati”, precisa – tornato a Washington il suo capo gli annuncia la sponsorizzazione per la green card: “Sapevo di avercela fatta”.
Il sei gennaio scorso, quando tutto il mondo vede le immagini dei supporter del presidente Donald Trump sfondare le porte di Capitol Hill, Iacopo è lì. “Ero in un edificio adiacente la rotonda (la sala circolare del Campidoglio) quando hanno invaso il Congresso”, racconta. “Siamo stati evacuati due volte: prima per degli esplosivi artigianali, le cosiddette pipe bomb, messe davanti agli uffici del partito democratico e repubblicano. Poi per l’irruzione vera e propria”. In quei minuti concitati il personale di sicurezza è stato sopraffatto dal numero dei manifestanti, senza venir meno, però, alla priorità di proteggere deputati, giornalisti e personale amministrativo. “La polizia ha sottostimato il worst case scenario ed è anche per questo che nei giorni successivi ci sono state dimissioni tra i vertici delle forze di sicurezza – afferma -. Io stesso sono rimasto sorpreso da tanta aggressività. I manifestanti urlavano che volevano impiccare il vicepresidente Michael Pence e ad alcuni sono state sequestrate cinghie che solitamente si usano per gli ostaggi”. Una pagina nera per la democrazia d’oltre oceano. “Oggi la figura di Trump è completamente svuotata di qualsiasi autorevolezza anche a destra, l’attacco al Campidoglio è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E questo è rimarcato anche dall’oscuramento dei suoi social portato avanti da Facebook e Twitter. Il consenso elettorale non può giustificare tutto in democrazia”.
Gli Stati Uniti sono anche una delle nazioni più colpite dalla pandemia. “Qui il covid ha vinto per il momento, inutile negarlo – continua Iacopo -. Benché le restrizioni, come sono avvenute in Italia, avrebbero fatto poca breccia in una società dove la libertà personale è uno dei cardini della vita quotidiana, è anche vero che se il presidente Trump non avesse sottostimato la pandemia non sarebbe finita in questo modo con migliaia di morti al giorno e 24 milioni di casi”. E proprio Voice of America è stata nel mirino dell’ormai ex presidente americano. “Facemmo un servizio che sostanzialmente elogiava la Cina per il successo delle misure anti covid – ricorda – e il presidente ci attaccò frontalmente”. Non solo. Essendo il network il servizio ufficiale del governo federale, Trump ha usato il proprio potere politico per insediare un Ceo a lui vicino, Michael Pack. Appena licenziato da Biden. “In piena pandemia di punto in bianco non sono stati rinnovati i documenti a molti dei miei colleghi senza un permesso permanente; alcuni hanno dovuto lasciare il Paese”. Le ingerenze, però, non spaventano il network che mantiene la propria linea editoriale ed autonomia, anche perché, come i giornali di carta stampata, spesso traggono forza proprio dai lettori tramite gli abbonamenti. Ma se pensa di tornare nel Bel Paese con la professionalità acquisita non ha dubbi: “Questa è una tappa della mia vita, non voglio essere il figlio che abbandona i propri genitori al loro destino. La qualità della vita negli States non è così alta come si può pensare, il nostro Paese sotto questo profilo è il migliore del mondo e se io ne avessi la possibilità tornerei”.