Cinque anni senza Giulio. Cinque anni da quel 25 gennaio 2016, quando a tarda sera il suo amico, Gennaro Gervasio, contattò l’ambasciata italiana al Cairo: “È scomparso un giovane ricercatore italiano”. Nove giorni dopo, il 3 febbraio, il corpo senza vita di Giulio Regeni, sfigurato a causa delle torture subite, è ricomparso lungo la strada del deserto che collega la capitale egiziana ad Alessandria: “Ho visto il disprezzo sul suo corpo”, dirà poi la madre, Paola Deffendi, parlando del riconoscimento. Intanto, la macchina delle omissioni, delle menzogne, dei depistaggi era già stata avviata. L’obiettivo degli apparati di sicurezza egiziani era e rimane uno solo: destinare il caso della morte di Giulio Regeni all’oblio, sorte toccata a molti altri misteri italiani.
Ma in questo hanno fallito. Grazie allo sforzo di Paola e Claudio Regeni che invece di cedere al dolore hanno deciso di combattere da subito e pubblicamente la guerra per ottenere giustizia. Grazie alla società civile che ha risposto immediatamente alla campagna Verità per Giulio promossa da Amnesty International, scendendo in strada e partecipando a manifestazioni e veglie in memoria del giovane friulano. E grazie anche all’attenzione dei media che hanno continuato a seguire gli sviluppi della vicenda del ricercatore di Fiumicello. Esattamente un anno fa, parlando a Ilfattoquotidiano.it, il presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, Erasmo Palazzotto, aveva ricordato che “la società civile ha dimostrato di non essere disposta a passarci sopra”.
Così è stato. Ed è anche per questo che oggi, nonostante tutti gli ostacoli da superare, la mancata collaborazione da parte del regime di Abdel Fattah al-Sisi, gli interessi economici e commerciali dello Stato italiano che non solo ha continuato, ma ha aumentato la vendita di armi al governo del Cairo, si è arrivati a un primo importante risultato ottenuto dai pm di Roma: il 20 gennaio la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per gli agenti dei servizi segreti egiziani Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif con le accuse a vario titolo di di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Un processo che si terrebbe in Italia, senza la protezione offerta fino ad ora dagli apparati egiziani, ma che si svolgerà senza la presenza degli imputati. Questo perché i pm egiziani continuano a sostenere la falsa pista della rapina finita male: un depistaggio organizzato velocemente e sempre velocemente smascherato dagli investigatori italiani.
Il crudo racconto di quei nove giorni di sequestro, ricostruito dal procuratore Michele Prestipino e dall’aggiunto Sergio Colaiocco, è il primo importante passo verso la verità dopo cinque anni di buio. Ma il percorso è appena iniziato e sono troppi i ‘perché’ ai quali si deve ancora dare risposta: perché i servizi egiziani hanno sequestrato e ucciso Giulio Regeni? Perché hanno deciso di far ritrovare il corpo in quelle condizioni invece di farlo sparire? Perché, tra tutti i fermi di concittadini in Egitto in quel periodo, quello di Regeni non si è risolto, come tutti gli altri, con una rapida liberazione? Perché i servizi segreti italiani, che a quanto risulta a Ilfattoquotidiano.it si sono recati in Egitto già il 27 e il 30 gennaio, non sono riusciti a liberare Giulio? Perché molti, troppi protagonisti di questa vicenda si sono chiusi dietro a un inspiegabile silenzio? Ci vorranno altri anni di indagini, di campagne mediatiche, di sostegno da parte dell’opinione pubblica per scoprirlo: “La società civile non è disposta a passarci sopra”. Perché ognuno di noi poteva essere Giulio Regeni.