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Egitto, dieci anni di diritti violati: il mondo è rimasto a guardare

Esattamente dieci anni fa, in occasione della Giornata della polizia, una moltitudine di uomini e donne ispirata dalla rivolta in Tunisia e da una campagna nazionale a seguito dell’ennesimo caso impunito di tortura – quello di Khaled Said, morto nel luglio 2010 a seguito delle percosse da parte delle forze di polizia ad Alessandria d’Egitto -, si radunò nel luogo simbolo del Cairo, piazza della Liberazione (da allora nota in Italia come piazza Tahrir), dando vita alla cosiddetta “rivoluzione del 25 gennaio”.

Dopo 18 giorni di proteste, oltre 800 morti e quasi 8000 feriti, l’11 febbraio il presidente Hosni Mubarak – al potere da 30 anni – rassegnò le dimissioni. Il Consiglio supremo delle forze armate (Scaf) assunse provvisoriamente il potere.

I 18 mesi di regime militare che seguirono furono segnati da una pesantissima repressione giudiziaria. Solo da febbraio a settembre del 2011 quasi 12.000 civili vennero arrestati e sottoposti a processo in corte marziale, più del totale degli imputati processati nel trentennio di Mubarak.

Vi furono brutalità nei confronti delle giovani attiviste nelle caserme (come i test obbligatori di verginità successivi all’arresto) e in piazza, durante le manifestazioni. Soprattutto, le forze di sicurezza compirono veri e propri massacri durante proteste pacifiche, come quella organizzata a ottobre, di fronte alla sede della radio e della tv (“palazzo del Maspero”) da 10.000 copti contro l’incendio di una loro chiesa nell’Alto Egitto, al termine della quale si contarono almeno 30 morti e oltre 300 feriti. A novembre, in un’altra manifestazione in viale Mohamed Mahmoud, vennero uccise altre 51 persone.

Le elezioni successive alla caduta di Mubarak portarono alla presidenza della Repubblica, il 25 giugno 2012, un esponente della Fratellanza musulmana, Mohammed Morsi. Il suo breve mandato fu segnato da una riforma costituzionale volta a incorporare alcuni elementi della giurisprudenza islamica, dall’incapacità di affrontare la difficile situazione economica e sociale e, anche questa volta, da una dura repressione delle manifestazioni: nel gennaio 2013, le forze di sicurezza uccisero 46 persone che protestavano di fronte al carcere di Port Said.

Morsi sarebbe poi deceduto nel giugno 2019, per diniego di cure mediche adeguate e condizioni di detenzione equivalenti a trattamento crudele, inumano e degradante, durante un’udienza di un processo che lo vedeva imputato di spionaggio.

Il 3 luglio 2013 un colpo di stato militare depose Morsi e portò al potere il generale Abdelfattah al-Sisi. Scattò subito la repressione nei confronti della Fratellanza musulmana, dichiarata fuorilegge, i cui leader vennero incarcerati e i cui simpatizzanti uccisi a centinaia durante tre massacri consecutivi: quello dell’8 luglio di fronte al quartier generale della Guardia repubblicana, quello del 27 luglio al Memoriale di Manassa e quello del 14 agosto nelle piazze Raba’a e al-Nahda.

Il giro di vite si estese ben presto a ogni voce critica non islamista. Secondo le organizzazioni non governative per i diritti umani, il numero dei prigionieri politici si colloca oggi intorno a 60.000.

Per descrivere la situazione dei diritti umani sotto la presidenza al-Sisi (che nel 2019, con un emendamento alla Costituzione confermato da un referendum si è assicurato la permanenza al potere fino al 2030), Amnesty International usa ricorrere a due ossimori: “stato d’emergenza normalizzata” o “stato d’eccezione permanente”.

Attorno allo stato d’emergenza, che continua a essere rinnovato senza soluzione di continuità, ruota in modo satellitare tutta una serie di leggi: prima tra tutte quella anti-terrorismo, dai contenuti così vaghi e generici che consente di criminalizzare attività pacifiche del tutto legittime ai sensi del diritto internazionale, poi quella sulle manifestazioni, quella sulle organizzazioni non governative, sui sindacati, sui mezzi d’informazione ecc. Se lo stato d’emergenza venisse abolito, non si noterebbe la differenza per quanto esso è stato “interiorizzato” dalla normativa ordinaria.

Protagoniste della repressione sono l’Agenzia per la sicurezza nazionale (i servizi segreti civili), che opera la maggior parte degli arresti, e la Procura suprema per la sicurezza dello stato (ossia la procura antiterrorismo) che nei primi cinque anni della presidenza al-Sisi ha più che triplicato il numero di casi trattati.

Questa Procura ha anche il compito di negare un fenomeno nuovo nell’Egitto di al-Sisi: le sparizioni forzate, in media due-tre casi al giorno nel biennio 2015-2016 e non granché diminuite negli anni a seguire. I giudici attestano che un detenuto è comparso davanti a loro nel rispetto della procedura, ossia entro due giorni dall’arresto, smentendo in questo modo settimane se non mesi di sparizione forzata, periodi di tempo durante i quali i detenuti vengono regolarmente torturati.

Sotto la presidenza al-Sisi viene fatto continuamente ricorso alla detenzione preventiva, cui è attualmente sottoposto anche lo studente dell’Università di Bologna Patrick Zaki. Sebbene la legge preveda una durata massima della carcerazione senza processo di due anni, dal 2013 vi sono stati migliaia di casi in cui tale periodo è stato prolungato anche fino a quattro o cinque anni, attraverso l’emissione di nuovi mandati di cattura alla scadenza del periodo stabilito per legge. La detenzione preventiva si applica nei confronti di numerosi prigionieri di coscienza, colpiti da inesistenti accuse “copia e incolla” quali “minaccia alla sicurezza nazionale”, “incitamento a manifestazione illegale”, “sovversione”, “diffusione di notizie false” e “propaganda per il terrorismo”.

Nelle carceri egiziane, dove sono ospitati complessivamente circa 110.000 detenuti, il sovraffollamento, le condizioni igienico-sanitarie, il diniego di cure mediche, l’isolamento prolungato anche per anni e le torture sono la prassi. Dal 2013 si sono registrate almeno 800 morti di detenuti. A partire dalla primavera del 2020, la pandemia da Covid-19 ha causato vittime tra i detenuti, le guardie penitenziarie e il personale amministrativo.

Frequente è anche l’obbligo, a fine pena, di sottostare a misure cautelari quali la permanenza dalle 18 alle 6 del mattino successivo in una stazione di polizia. Ciò rende praticamente impossibile agli ex prigionieri tornare a una vita familiare e professionale normale.

Per impedire che la popolazione egiziana sia informata sulla situazione dei diritti umani e che notizie siano diffuse anche fuori dal paese, vige una ferrea censura nei confronti degli organi d’informazione. I giornalisti condannati o in attesa di giudizio sono almeno 30.

Dal luglio 2013 al maggio 2019 sono state emesse oltre 2400 condanne a morte e vi sono state 144 esecuzioni, spesso al termine di processi irregolari. Alla fine del 2020 il totale è salito a oltre 200, con 51 condanne eseguite solo tra ottobre e novembre.

Nel conflitto armato nella penisola del Sinai (su cui vige il divieto assoluto di riferire notizie di fonti diverse da quelle ufficiali) si stima siano stati uccisi oltre 3000 membri di gruppi armati islamisti e circa 1300 soldati. Dal 2014, per asseriti motivi di sicurezza, oltre 100.000 persone sono state sottoposte a sgombero forzato.