A inizio dicembre la struttura è stata scardinata dalle forti folate di vento e ritrovata dopo qualche giorno in fondo all'Adriatico. Le rassicurazioni delle autorità del paese balcanico sono state smentite da un'indagine di Cova Contro e Greenpeace, che si basa sulle immagini fornite dall'Agenzia spaziale europea. La trivella era ai limiti del suo tempo di vita (20 anni) e ripropone la questione dello smaltimento e della manutenzione delle strutture divenute inattive
L’affondamento della piattaforma estrattiva di gas metano Ivana D, avvenuto il 5 dicembre scorso nell’Alto Adriatico, potrebbe aver causato un ingente rilascio di idrocarburi in un tratto di mare tra Italia e Croazia. Rilanciando un’indagine realizzata dall’associazione Cova Contro, che ha analizzato i dati (disponibili) prodotti dal telerilevamento dell’Agenzia Spaziale Europea, Greenpeace chiede alle autorità competente di verificare quanto accaduto. La piattaforma era scomparsa, presumibilmente divelta dal forte vento, per essere poi ritrovata sul fondo del Mare Adriatico (a oltre 40 metri di profondità) pochi giorni dopo l’affondamento. “Le immagini satellitari raccolte da Cova Contro, relative alle ore successive all’incidente, mostrano la presenza di evidenti tracce rilevate dai sistemi satellitari di oil spill detection che, in un primo momento vicine alle piattaforme, successivamente si disperdono verso le coste croate e italiane” spiega Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia.
Secondo il briefing dell’associazione ambientalista ‘Volano Trivelle’, la piattaforma Ivana D era ai limiti del previsto periodo di esercizio, ossia 20 anni. Nei mari italiani esistono, tuttavia, molte altre piattaforme “che non solo sono assai più vecchie, che da tempo non producono nulla e che è urgente smantellare. Potrebbero – scrive Greenpeace – non reggere a fenomeni meteomarini sempre più estremi che proprio la combustione di fonti fossili ha contribuito a generare, alterando il clima del nostro Pianeta”.
LA PIATTAFORMA RITROVATA IN FONDO AL MALE – La piattaforma Ivana D si trovava una cinquantina di chilometri al largo di Pola (Istria, in Croazia), al limite della linea che divide le acque territoriali croate da quelle italiane e faceva parte del campo Ivana, costituito da sei piattaforme connesse tra loro. La principale, Ivana A, è però l’unica ad essere abitata da un equipaggio permanente. Ivana D conferiva, invece, il gas verso la struttura madre, a sua volta connessa sia con l’Istria che con la piattaforma Garibaldi K, di Eni, in acque italiane. Sebbene oggi il campo sia gestito dalla compagnia petrolifera di Stato della Croazia (Industrija Nafte, INA), fino a qualche anno fa era della Inagip, società mista tra l’Ina Naftaplin e l’italiana Eni. Da giugno 2018, INA ha acquisito da Eni il controllo totale dei giacimenti, ma resta in vigore proprio la fornitura di gas tramite la condotta che connette Ivana A a Garibaldi K. Le attrezzature per la piattaforma Ivana D sono state fornite dalla Viktor Lenak (del gruppo Palumbo, basato a Napoli) sul cui sito si legge che la piattaforma è stata costruita nel 2000, con una durata operativa prevista in venti anni.
DOPO LA TEMPESTA – Subito dopo la notizia della sparizione della piattaforma, sono arrivate le prime rassicurazioni: prima del naufragio, attraverso un sistema di sicurezza che scatta in caso di emergenza, sulla piattaforma sarebbero state chiuse le valvole per impedire dispersioni del gas dal sottosuolo. Questa la linea delle autorità croate, mentre l’area interessata è stata sorvolata da un aereo della Guardia Costiera, che ha riferito di non aver notato alcun inquinamento sul sito di ricerca. INA esclude ci sia stato un problema di manutenzione: “Nell’ottobre di quest’anno è stato condotto l’ultima ispezione coordinata” di Ivana D, che operava con un certificato di sicurezza valido. Eppure in quei giorni l’ex direttore di Ina ed ex ministro croato Davor Štern, da sempre contrario all’installazione delle trivelle in Adriatico, non escludeva che dietro quell’incidente potesse esserci un’avaria causata da una carente manutenzione, giacché si tratta di strutture che hanno una durata “ed è logico – sosteneva – che, si è meno attenti quando cala il prezzo del derivato e aumentano le spese di gestione, ma soprattutto quando si è giunti al termine dello sfruttamento”.
L’INDAGINE – Nel frattempo Cova Contro ha condotto un’indagine, analizzando i dati prodotti dal telerilevamento satellitare dell’Agenzia Spaziale Europea (ESA) del programma Copernicus e, in questo caso, della missione Sentinel-1 relativi al 9 dicembre (primo passaggio utile dopo l’affondamento della piattaforma). “Attraverso l’impiego dell’algoritmo di analisi Oil Spill Detection – rileva l’indagine – si evidenziano tracce che sembrano riferibili a un oil spill a sud rispetto alla posizione precedentemente occupata dalla Ivana D. Le tracce sembrano piuttosto vicine alle piattaforme Ivana E e Ivana A. Dopo il ritrovamento, INA ha dichiarato che nella struttura c’erano crepe, ma che le condotte del gas si sono solo piegate e non rotte. “Eppure – rivela l’indagine – la compagnia di assicurazione nautica SeaHelp consiglia ai natanti di evitare il sito dell’incidente e ricorda i rischi dei rilasci di metano, in particolare per il clima”. Il metano è infatti un gas serra, ricorda Greenpeace “nel breve periodo (20 anni) molto più potente della CO2, ed è considerato responsabile di circa il 20% del riscaldamento globale in atto”. Anche se si presume che il metano eventualmente rilasciato in incidenti di questo tipo si disperda rapidamente in atmosfera “sono noti effetti tossici su molluschi e pesci. Insomma basta davvero un sorvolo in aereo per escludere che ci siano stati pericolosi rilasci di sostanze tossiche in mare a seguito dell’incidente?” si domanda l’organizzazione, che sul caso chiede un’indagine più approfondita.
VOLANO TRIVELLE – Anche perché nel mar Adriatico sono presenti 98 piattaforme italiane e 17 croate. In un bacino dalla superficie limitata sono quindi presenti 115 diverse strutture adibite all’estrazione di idrocarburi, soprattutto gas fossile. “E molte sono piuttosto vetuste – scrive Greenpeace – anche molto più di Ivana D. Alcune, hanno superato il mezzo secolo e molte di esse sono improduttive: noi le abbiamo chiamate le vecchie spilorce perché da anni non danno nemmeno un euro di royalties alle casse dello Stato”. E dopo anni di discussione, era stato messo a punto, dal ministero Sviluppo Economico un elenco di 34 impianti da smantellare. Elenco chiuso però in un cassetto e infine pubblicato proprio dalle associazioni, che ne erano entrate in possesso. Per Greenpeace “è urgente avviare lo smantellamento delle vecchie piattaforme, imporre un monitoraggio più efficace di tutte le altre e impedire una ulteriore proliferazione delle trivelle, ovviamente non solo in Adriatico”.
LA MORATORIA – A proposito della scadenza dei termini della moratoria che ha congelato ogni nuova attività estrattiva e di ricerca negli ultimi due anni, Greenpeace chiede “una norma che blocchi per sempre ogni nuova attività estrattiva in acque italiane”. Lo stesso ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha annunciato che sarà rinnovata. Sul tema è intervenuto anche il deputato del M5S, Giovanni Vianello, membro della Commissione Ambiente della Camera che ha presentato una proposta di legge contenente, tra le altre cose, la previsione di una moratoria definitiva su trivelle e air gun. Il deputato ha anche ricordato che “la moratoria che sarebbe dovuta scadere a gennaio 2021 è stata allungata grazie all’approvazione di un emendamento” a prima firma dello stesso Vianello, testo che ha ricevuto il via libera del Parlamento a febbraio 2020. Dunque la moratoria è valida fino ad agosto 2021.