Steven Levitsky e Daniel Zimblatt, due tra i più conosciuti e apprezzati politologi di Harvard, hanno dato alle stampe recentemente un formidabile trattato su come muoiono le democrazie. La tesi del libro è che, diversamente dal passato, quando erano rivoluzioni o colpi di stato a interrompere il processo democratico, oggi il problema delle democrazie è la morte non causata da attacchi esterni, ma per ragioni interne che agiscono in modo lento e attraverso processi poco visibili, che i più faticano a vedere.

Che il cambiamento più pericoloso sia quello che gli esseri umani non colgono a causa della ‘adattabilità alle catastrofi’ è fatto ormai tragicamente noto. Perché la specie umana non si ribella per esempio allo scenario dell’apocalisse climatica mentre sembra impazzita di fronte a un’epidemia dalle dimensioni tutto sommato contenute? La risposta è che giorno dopo giorno le condizioni ambientali peggiorano lentamente e così gli esseri umani si abituano a una situazione di sempre maggiore degrado. Lo stesso fenomeno di ‘abitudine alla rovina’ caratterizza anche l’evoluzione dei sistemi democratici.

Le democrazie si fondano sulla possibilità di dibattere pubblicamente le questioni di interesse collettivo, di fare maturare opinioni e capacità di comprensione delle ragioni degli altri e di trovare compromessi per affrontare problemi che i diversi gruppi sociali vivono in modo diverso. Fino a che esiste una sfera pubblica in cui si possono argomentare le diverse posizioni, e i cittadini sono messi in condizione di comprendere i termini almeno minimi delle questioni, una democrazia è viva. La democrazia muore invece quando tra i cittadini si instilla la convinzione che non esista più una ragione per cui la logica della discussione e del confronto tra punti di vista diversi abbia un senso.

Quando questo accade, ciò che rimane è la contrapposizione tra posizioni che rigettano per partito preso le altre, le argomentazioni sono sostituite da giudizi sommari e si spalancano le porte per comportamenti collettivi che ricercano e osannano le soluzioni semplificanti e il rapporto diretto tra opinione pubblica e l’uomo della provvidenza del momento. Immagini costruite per alimentare personalismi e contrasti si sovrappongono all’indispensabile opera di costruzione di una sfera di dibattito pubblico in cui tutti pur da posizioni diverse si possono sentire parte di un medesimo corpo sociale. Al centro dell’agenda politica finiscono per essere collocati argomenti che tendono a diventare polarizzanti e che sono spesso sconnessi dai problemi concreti delle persone.

In Italia, vista attraverso questa chiave di lettura, la democrazia è morente, o probabilmente già defunta. Da anni, media e politica non entrano nel merito delle questioni, le strategie di raccolta del consenso sono personalistiche e divisive. I talk show televisivi che hanno narcotizzato una parte maggioritaria dell’opinione pubblica dalla fine degli anni ‘90 inscenano ogni sera finti dibattiti in cui gli invitati si insultano a vicenda, alzano i toni, sfuggono regolarmente da ogni tipo di contenuto. I partiti e le organizzazioni della società civile sono svaniti e al loro posto sono apparsi leader dalle parvenze e dai modi istrionici e grotteschi che mettono in scena la pantomima dell’uomo forte, dai tempi di Weimar una soluzione sempre buona per i tempi bui.

L’ultima puntata del dramma vede calcare il palco personaggi al limite di ogni decenza – Renzi, Meloni, Grillo, Salvini, parlamentari pronti a tutti i tradimenti e trasformismi. L’italiano medio è abituato al gramo spettacolo, e i più osservano distratti quanto accade nelle Malebolge. Ma il mare stavolta è molto mosso e non basterà augurare a ruffiani e seduttori di essere presi a sferzate dai diavoli dell’ottavo cerchio dantesco per esorcizzare il naufragio.

Le conseguenze della crisi Covid non sono state ancora registrate dalla massa. Bonus e ristori di ogni genere hanno fino adesso assopito la capacità di valutazione dei fatti e la chimera dei 200 miliardi europei stordisce persino i più audaci. Che la grande parte di questi soldi sia destinata a essere sperperata tra corruzione, veti dei piccoli gruppi di interesse, lobby che finanziano i politici per ottenere vantaggi a discapito della collettività non sembra interessare più di tanto. Così come i più non riescono a comprendere che sono le basi stesse della nazione a essere ormai piegate con l’invecchiamento demografico, la disoccupazione giovanile, le infinite rendite di posizione, i media controllati dai leader politici e dai grandi possessori di capitale.

Tutti gli osservatori concordano che su queste premesse, la pandemia è destinata a aumentare a dismisura le diseguaglianze, generando nuove enormi sacche di povertà. Tra i più colpiti ci saranno non solo i lavoratori immigrati ma soprattutto i giovani, le donne e i lavoratori dei mercati secondari del lavoro.

Tra pochi mesi la sceneggiata della crisi di governo lascerà così il posto a una crisi che gli osservatori più attenti reputano veramente senza pari. In questo quadro la domanda è: cosa potrà fare una democrazia senza più anima per reggere l’urto? Sara sufficiente parteggiare per il guitto di turno per fare ripartire la nazione? Oppure, come la storia ha insegnato, dopo l’agonia di una democrazia, arriva qualcosa di altro che a molti farà rimpiangere quello che non hanno fatto per difendere la libertà che avevano avuto in eredità?

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