Per un animo rossonero la Verona calcistica non può che essere indigesta: fatale no, non ancora e sarebbe stata persino un’indigestione da poco, per Gattuso, se non fosse arrivata dopo quella con lo Spezia in casa, dopo quella scampata quasi in extremis col Torino, dopo la Supercoppa italiana persa contro la Juve. Ma i passi falsi sommati assieme, dopo 13 mesi sulla panchina azzurra, portano all’inevitabile stesura del bilancio gattusiano, e se all’11 dicembre 2019, quando Ringhio sostituì l’amico e mentore Carletto Ancelotti, si parlò di decrescita felice ad oggi nulla c’è da eccepire sulla decrescita ma tutto o quasi sul sentiment che va ad accompagnarla.
Eh già, perché nella scorsa stagione Ringhio aveva fatto il sarto correggendo quella che con Ancelotti si era trasformata in indolente mollezza e via via in psicodramma, giocandosela con uno schema più difensivo reso possibile anche dagli arrivi di gennaio, in particolare Demme per bilanciare il centrocampo. Ne era venuto fuori un buon cammino in campionato, che aveva portato la squadra dall’undicesimo al settimo posto e soprattutto la vittoria della Coppa Italia ai rigori contro la Juve: un trofeo in bacheca a Napoli, dove non se ne vedono molti, dove neanche l’amatissimo Sarri era riuscito a portarne uno in tre anni, è sempre un traguardo non trascurabile.
Un traguardo che aveva portato a guardare con ottimismo al futuro, magari mettendo in dubbio l’idea stessa di decrescita che pareva evidente dopo l’esonero di Ancelotti.
Di sicuro tra ammutinamenti dei big, risultati pessimi e un calcio che da guardare aveva lo stesso grado di spettacolarità di un tutorial di cucito era diventato impossibile difendere Carletto. Allo stesso tempo cacciandolo diventava palese la parabola decrescente del progetto: con Ancelotti l’obiettivo evidente era rendere strutturale l’innegabile crescita del club, accrescerne la vocazione europea e dunque potenziare il brand Napoli attraverso il nome, la storia e la bacheca di uno dei tecnici più vincenti, stimati e conosciuti al mondo. La retromarcia, innestata puntando forte su Gattuso, andava in un senso completamente diverso: puntare sul “magic touch” di De Laurentiis che già aveva reso possibili le epopee felici di Mazzarri prima e Sarri poi, creare una forte identificazione con un allenatore meridionale e pugnace e metter su una squadra operaia e guerriera (in linea con “e oggi come allora difendo la città” mantra del tifo partenopeo).
La decrescita felice, appunto, condita però da un mercato milionario: Osimhen a 70 milioni, Politano, Rrahamani, Bakayoko (in prestito), Petagna, Lobotka, Demme per oltre 100 milioni, e con quella che per numeri e vastità è la rosa più completa dell’era De Laurentiis. Ma. Eh sì, perché a lungo andare sono arrivati i ma, da guardare in controluce con le cose positive: le prestazioni superlative intervallate da partite indolenti e svogliate, una disposizione tattica discutibile e spesso testarda, il recupero insperato di Lozano oggi incontenibile unito all’involuzione totale di pezzi pregiati come Fabian Ruiz. Una situazione che è costata la Supercoppa con la Juventus, con un atteggiamento quasi reverenziale degli azzurri a prescindere dal rigore di Insigne, che forse però è lo specchio di quella reverenza visto che di quattro rigori sbagliati in carriera 3 il capitano del Napoli li ha abbuonati ai bianconeri. Una situazione che ad oggi ha portato a 6 sconfitte in 18 partite (per Ancelotti erano state fatali 4 in 15) alcune delle quali da blackout totale come quella con lo Spezia in casa, con l’Az Alkmaar in Europa League o appunto l’ultima col Verona.
Una situazione che ha portato sulla graticola Gattuso, prima blindato e a un passo dal rinnovo e oggi chissà. Al mister si imputa, oltre ai risultato, l’incapacità di correzione dei difetti: il Napoli è una squadra a doppia velocità che alterna prestazioni devastanti (squadre forti come Roma e Atalanta annichilite) a momenti di nulla totale, e questo si è ripetuto sempre, e soprattutto l’enorme distanza, che stupisce, tra il notorio carattere combattivo di Gattuso e la pigrizia a volte baldanzosa a volte triste dalla squadra. Senza quel veleno più volte predicato davanti alle telecamere, poche volte tramutato in morsi agli avversari in campo.
In discussione sembrerebbe esserci anche il ds Cristiano Giuntoli. Al direttore sportivo, enfant prodige della scalata del Carpi dai dilettanti alla A, stimato e decantato pubblicamente come assoluto conoscitore di calcio e di calciatori dagli ex allenatori azzurri, Sarri e Ancelotti, vengono imputati cinque anni di mercati “discutibili”: scommesse non riuscite (Chalobah, Rog, Ounas, Diawara, Malcuit), oggetti misteriosi (Grassi, Leandrinho, Machach, Gnahorè, Basit), tralasciando naturalmente i calciatori voluti dagli allenatori (Fabian Ruiz, Ospina, Lozano e prima di loro Allan, Valdifiori, Hysaj, Tonelli), in mezzo ai vari Milik, Giaccherini, Pavoletti, Mario Rui, Verdi. Giudizio sospeso per Elmas, pagato comunque 16 milioni, e naturalmente Osimhen che ne è costati, pare, 70. Insomma, ad oggi il piatto sembra piangere in confronto a Pierpaolo Marino che con poco regalò al Napoli Lavezzi, Hamsik, Domizzi, Paolo Cannavaro, il pampa Sosa, Maggio o a Riccardo Bigon che ha scovato Mertens, Koulibaly, Goulham, Duvan Zapata, e ha portato a Napoli Cavani (tralasciando i vari Higuain, Albiol, Reina, Callejon chiesti da Benitez). E in tutto ciò è insolitamente silente, da molto, il patron Adl: qualcuno lo vorrebbe in meditazione, tra rinnovi, repulisti e clamorose ripartenze del progetto in chiave europeista. Alla ricerca della felicità insomma: e dove piazzarla, se accanto alla crescita o alla decrescita, si vedrà poi.