Su una cosa siamo tutti d’accordo: la crisi di governo era l’ultimo intralcio di cui aveva bisogno l’Italia. Eppure, anche in questa crisi emerge con più forza l’esigenza di un nuovo soggetto politico capace di fare da cerniera riformista ad una coalizione fra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle. Un partito che abbia come punto di riferimento il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e che guardi a un’ampia fetta di cittadini che non si sentono pienamente rappresentati dagli attuali schieramenti.
Attenzione, però: non solo non è ancora tempo, ma non si può nemmeno immaginare di ridurre questa esigenza a una operazione parlamentare, seppur necessaria. Un supporto di senatori e parlamentari responsabili si giustifica per altre ragioni, che riguardano l’interesse generale del Paese: l’esecuzione rapida e ottimale delle vaccinazioni, la supervisione dell’andamento della pandemia, l’adozione del Recovery Plan e infine – non meno importante – la riforma della legge elettorale.
Su questo ultimo aspetto alcuni a destra hanno avuto da ridire. Non mi sorprende. Per loro la democrazia è solo un dato formale, una pratica plebiscitaria da sbrigare frettolosamente per andare al potere. Quelle regole sono importanti invece, in particolare in una condizione di crisi come quella che stiamo vivendo. Plasmeranno le regole del nostro agire collettivo. Non è secondario quindi come decideremo di realizzare la legge elettorale, che dovrà rispecchiare al meglio le forze politiche presenti nel Paese. E sono d’accordo con Conte e i partiti di maggioranza sul fatto che una legge proporzionale, con dei correttivi a favore della governabilità, possa rispondere a queste esigenze.
Il ruolo del nuovo soggetto politico però è un altro. Deve avere lo sguardo oltre queste stesse sfide e presentarsi al Paese come forza politica nuova di un riformismo gentile. Ma se i presupposti di questa operazione risiedono nelle migliori esperienze degli ultimi mesi di governo, bisogna tenere presente che sono lo specchio di qualcosa di più grande. Di un europeismo critico, ma ostinato. Orientato più alla giustizia sociale che non al timore reverenziale verso i mercati.
Lo dico anche sulla base della mia esperienza al Parlamento europeo: non capitalizzare il grande successo politico del governo italiano nella risposta alla pandemia sarebbe un errore imperdonabile. Un anno fa abbiamo capovolto l’atteggiamento dell’Europa riguardo a solidarietà fiscale e politiche industriali. Se daremo continuità a questo percorso, possiamo davvero collocare l’Italia – uno dei Paesi fondatori e terza forza economica del continente – alla testa di una riforma dell’Unione europea. E si badi bene, tutte le iniziative che dovremo intraprendere sul piano interno non basteranno, se non saranno collocate all’interno di una profonda riforma delle istituzioni europee in chiave più democratica e solidale.
Soltanto con un’Italia forte, guidata da una maggioranza convintamente europeista, si potranno ottenere risultati concreti. Questo è il senso dell’operazione politica di cui deve incaricarsi il presidente del Consiglio. E con un progetto del genere si possono anche vincere le elezioni. Senza paura.
In questo ultimo anno è cambiato tutto, la nostra vita, le nostre abitudini. Per alcuni, solo le burocrazie dei partiti devono rimanere uguali. Per fortuna, non è così.