Un clan mafioso su base familiare che, attraverso metodi violenti e intimidazioni, uso di armi e ordigni esplosivi, aveva creato un clima di assoggettamento e omertà tra la popolazione. È stato sgominato nella mattina del 26 gennaio grazie all’operazione dei carabinieri nel sud Pontino, a Latina. Duecento carabinieri, con l’ausilio di elicotteri e di unità cinofile dell’Arma, hanno eseguito l’ordinanza emessa dal gip di Roma su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia (Dda), che ha disposto la custodia cautelare nei confronti di 19 persone (18 in carcere e una agli arresti domiciliari). Le accuse sono, a vario titolo, di associazione a delinquere di tipo mafioso, associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, detenzione illegale di armi comuni da sparo, estorsione, rapina, danneggiamento e incendio, tutti delitti aggravati dal metodo mafioso.
L’ordinanza di custodia cautelare, emessa dal gip di Roma su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia, ricostruisce l’attività di un’associazione di tipo mafioso, operante in particolare nel territorio di Castelforte, Santi Cosma e Damiano. Il gruppo criminale era capeggiato da Antonio Antinozzi. La Dda, che ha coordinato il Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Latina e dalla Compagnia Carabinieri di Formia, ha inoltre accertato l’esistenza di due associazioni dedite al narcotraffico. L’indagine è partita nel dicembre del 2015 e si è conclusa nel gennaio del 2020. La maggior parte dei destinatari della misura cautelare già nel 2007 erano stati riconosciuti come appartenenti al clan “Mendico-Riccardi”, una ramificazione in territorio laziale del clan camorristico dei Casalesi.
Nell’ordinanza del gip figurano anche alcune intercettazioni dei membri del clan. “Qua nessuno ti vuole fare un’estorsione… Ma un pensiero lo vuoi portare? Fai un pensiero agli operai…”. Questa dichiarazione risale al 28 luglio del 2016 ed è stata rivolta al titolare di una impresa di rimessaggio barche dopo un’azione di danneggiamento all’azienda. Il gruppo criminale capeggiato da Antonio Antinozzi puntava a ottenere la cosiddetta “messa a posto” alla “tangente utile per la protezione”. “Le indagini hanno consentito di accertare che l’associazione – scrive il gip – utilizza metodi mafiosi avvalendosi della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo, incutendo nelle vittime una condizione di assoggettamento e omertà”.
Nelle carte dell’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto alla Dda di Roma Ilaria Calò e dal pm Corrado Fasanelli, è citato anche un episodio del 2016 in cui Marika Messore, nipote di Antonozzi, viene chiamata in causa per risolvere una controversia tra i sostenitori di due fazioni politiche in corsa per l’elezione del sindaco di Minturno. “La donna nel raccontare l’episodio – aggiunge il gip – si mostra particolarmente compiaciuta per essere riuscita a risolvere il problema, asserendo di essersi recata in un bar a Minturno frequentato dai ragazzi che strappavano i manifesti e di aver intimato loro di non farlo più“. La donna, intercettata, racconta così l’episodio: “Sono andata là sopra come una pazza, ho detto chiamatemi tizio, caio e sempronio, senza neanche chiedermi chi sei e chi noi, non hanno più toccato i manifesti”.