Nei pochi giorni trascorsi dalla fiducia relativa ottenuta in Senato da Giuseppe Conte, quella quota di 156 sì che gli ha garantito la sopravvivenza ma non gli consente di poter governare senza fare affidamento su astensioni dell’ultimo minuto o assenze strategiche ipercalcolate e non gratuite, continuiamo ad assistere ad un assillante, unilaterale resoconto “aggiornato ora per ora” della crisi, come amano definirlo molti autorevoli commentatori, esperti cronisti parlamentari nonché sedicenti retroscenisti.
In questo diario mediatico unificato, da cui si dissociano pochissime voci, impazza un quadro del presidente del Consiglio quantomeno eccessivamente pittoresco e romanzato, caratterizzato da trame sotterranee, manovre nell’ombra e colori foschi comicamente stridenti con la realtà.
Attaccato alla poltrona come mai nessuno prima, accostabile “come il beige che va su tutto” (copyright di Concita De Gregorio) a transfughi e trasformisti di qualsiasi risma o provenienza; ma anche “l’uomo del mistero” (titolo che gli ha dedicato 8 e mezzo) di ignota o inesistente storia politica; gradito ad alti prelati e potenti massoni e accusato da Massimo Giannini in prima pagina sulla Stampa di aver coinvolto vertici dei servizi segreti a sua diretta disposizione per reclutare senatori “volonterosi”.
Ebbene, ad una settimana dalla fiducia ottenuta dalle Camere, in una mattinata poco luminosa, Giuseppe Conte è salito al Colle per dimettersi da presidente del Consiglio: la crisi è ufficialmente aperta, il capo dello Stato ha accettato le dimissioni del premier con riserva in attesa di capire e di valutare il quadro, tutt’altro che prevedibile, che si evidenzierà a seguito delle consultazioni fissate con un calendario serratissimo per stringere i tempi.
Dunque “l’avvocato-premier camaleonte”, l’uomo dalle mille piroette e dai mille intrighi nella vulgata mediatica che accomuna Libero, L’Espresso, Il Giornale, Dagospia, per citare solo alcuni tra i detrattori più animosi e coloriti, ha mollato la poltrona per affrontare una crisi profondamente buia e con tutte le premesse più sfavorevoli per lui.
Se le ragioni all’origine della crisi, e cioè le dimissioni imposte da Renzi alle sue ministre, rimangono incomprensibili e inaccettabili per chi voglia trovare una motivazione fondata sul merito, l’apertura formale con le dimissioni sul tavolo di Mattarella derivano dalla scelta coerente e conseguente di Conte di non scaricare il ministro della giustizia Alfonso Bonafede, che al Senato avrebbe rischiato di veder bocciata la sua relazione sulla giustizia.
Infatti un’approvazione che solitamente è una formalità in questo caso sarebbe stata l’occasione per una resa dei conti definitiva contro il Guardasigilli, reo di non voler ripristinare la prescrizione, in sintonia peraltro con le legislazioni di tutta Europa, e di voler impiegare 2,75 miliardi del Recovery Plan per assumere personale qualificato nei tribunali e snellire mole e tempi dei processi, cioè per rendere più efficiente la giustizia come tutti trasversalmente fingono di volere.
Naturalmente una mezza scorciatoia a portata di mano per ammorbidire il no secco all’approvazione, annunciato in blocco dai renziani che volevano far fuori Bonafede già da tempo, a cui si sono aggiunti i mal di pancia dei “nuovi responsabili” allergici ad una drastica riduzione dell’impunità da prescrizione, il Pd l’aveva trovata.
Infatti l’ex-guardasigilli Andrea Orlando, da sempre critico sulla riforma Bonafede e sensibile al richiamo del “lodo Annibali” per fermare la Spazzacorrotti, aveva già proposto contributi per dare quel “segnale politico” distensivo in senso cosiddetto garantista chiesto dal Pd sui temi più critici: prescrizione, riforma dell’ordinamento penitenziario e separazione delle carriere. In sintesi la riproposizione di tutti i must sulla giustizia che accomunano Renzi, Salvini, B., i coniugi Mastella, l’Udc orfano di Cesa e mezzo Pd.
Conte, additato come il re del tatticismo e dell’accomodamento, in piena condivisione con la linea Di Maio – “Il voto di mercoledì su Bonafede è un voto sul governo” – ha preferito evitare la conta in aula, sfruttando qualche probabile assenza tattica di renziani e forzisti indecisi, e benché legittimamente tentato dal voto ha deciso di salire al Colle da dimissionario, in vista di un Conte ter quanto mai aleatorio. Infatti il reincarico è sottoposto alla certezza dei numeri di una maggioranza assoluta in entrambe le camere e allargata ai fin troppo evocati “responsabili” che dovrebbero concretizzarsi ed organizzarsi per ottenere il placet di Mattarella.
Ma il problema dei problemi è che il niet al “patriota” Renzi in casa Pd, nonostante le dichiarazioni di Zingaretti e Bettini, è di fatto rientrato e anche tra i peones 5S si ascoltano voci troppo concilianti nei confronti dell’artefice unilaterale di una crisi nata per dare un’opportunità unica ai tanti che vogliono sfilare il Recovery Fund a chi l’ha faticosamente conquistato. E la colpa imperdonabile di Conte è stata di volerlo gestire in modo trasparente con una cabina di regia che fa capo al primo ministro e ai ministeri economici, analogamente a quanto avviene in tutta Europa.
Ora non resta che augurarsi che almeno al primo giro di consultazioni Pd, M5S e Leu dicano con una sola voce “o Conte o voto” che è anche l’unica strada per persuadere i cosiddetti responsabili a manifestarsi e a ridurre il danno dei tentativi “patriottici” del bullo-guastatore per rientrare in partita.
Non è una prospettiva esaltante, ma l’alternativa più probabile non è il voto, con le controindicazioni e i pericoli noti, ma un’ammucchiata da “larghe intese” a cui Meloni e Salvini ufficialmente hanno già detto “no, grazie” e che secondo un copione politico-mediatico già perfezionato dovrebbe mettere fuori gioco Conte ed annientare definitivamente il M5S. Se lo sventurato rispondesse finirebbe (malamente) di esistere; se ragionevolmente e coerentemente si chiamerà fuori verrà trattato come nemico pubblico.