Il termine negazionista, oggi tanto in voga in tempi di coronavirus, è un’etichetta e come tale semplifica una realtà più complessa di quella che vorrebbe rappresentare, inoltre, come ogni etichetta, relega e confina delle persone e il relegare ed il confinare esseri umani non è mai una cosa auspicabile. Senza contare che l’origine del termine richiama alla memoria eventi gravi del passato, per cui mi chiedo se non sia opportuno fare una scelta diversa dei termini per rispetto di altri tempi storici. I media veicolano i pensieri, ma noi dovremmo rimanerne proprietari.

Anche se da singolo posso non fare testo, non conosco nessuna persona che neghi il virus, ma tantissime ne conosco che si fanno domande su alcune scelte sociali, economiche e politiche che forse potevano essere diverse, alcuni lo sostengono con forza e convinzione. Io non entro nel merito per non alimentare polemiche che mi allontanerebbero da altre riflessioni che vorrei mettere in campo, ma credo che il diritto di parola debba essere preservato, c’è chi ha combattuto ed è morto per ottenerlo. Esprimersi deve essere garantito a tutti, è solo l’azione che può essere normata e regolarizzata. Si può pensare quello che si vuole, ma non si può fare quello che si vuole.

Non nego quello che viene definito negazionismo del Covid-19, ma lo ritengo un fenomeno numericamente meno significativo di quello che viene rappresentato mediaticamente, se appunto parliamo di negazione esplicita del virus e non di altro. Non dovremmo invece negare altri effetti drammatici secondari che ben presto diventeranno primari, se già non lo sono, due tra tutti: l’interruzione della scuola e della sana socialità dei ragazzi e la devastazione economica di alcune categorie professionali. Chi non pensa con preoccupazione viva a questo, a mio parere, è il “negazionista”. Alcuni li abbiamo lasciati sul balcone a pensare, quando non gridare “andrà tutto bene”, forse sarebbe il caso di invitarli, con rispetto ed educazione, a rientrare.

Non so se sia intenzionale, ma il risultato è sotto gli occhi di tutti: dividerci in fazioni di saputelli (senza offesa per nessuno, io per primo posso fare il saputello e questo post lo dimostra) in cui si assolutizza la realtà che invece dovrebbe godere di una maggiore relatività.

Personalmente, dovessi fare una previsione non richiesta, penso che ci aspettano ancora mesi difficili e forse qualcosa di più. L’augurio è di scoprirci maggiormente come comunità, il sentire è un qualcosa di talmente reale che non può andare in smart working. Siamo indipendentemente da quello che abbiamo, anche se quello che abbiamo non può passare sottotraccia ovviamente perché ci sostenta nella pratica quotidiana del vivere a cui tutti abbiamo diritto. Toglierci da etichette e definizioni aiuta a riscoprire quel noi oggi più che mai necessario da contrapporre ad un generico e divisivo loro.

L’utilizzo delle parole è importante, denota quanto su di esse siamo in grado di riflettere, creano ponti oppure muri, lo sappiamo e viviamo in ogni discorso e discussione con chiunque. I social purtroppo raramente aiutano il pensiero, più sovente sfogano emozione del momento.

Questo l’ho scritto per chi lo vorrà leggere, senza pretesa, probabilmente è un modo per esorcizzare le mie preoccupazioni per un futuro dietro l’angolo.

Chiamiamoci persone, chiamiamoci con i nostri nomi di battesimo, indipendentemente dalle idee che possono vederci in confronto, non necessariamente in scontro. Io a questo ci credo davvero. Voi?

Vignetta di Pietro Vanessi

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