1 /14 Kara Tepe new camp, Lesbos.
Costretto a un interrogatorio non ufficiale di quattro ore e mezza, alla formattazione della scheda della sua macchina fotografica e a lasciare la Grecia, spinto dalla polizia del posto che lo minacciava di “sbatterlo in cella”. Atti intimidatori che sono stati compiuti non in un Paese governato da un regime, ma in Grecia. A farne le spese è stato Danilo Campailla, fotografo freelance che si trovava a Lesbo, nella città di Mitilene, per documentare la vita dei migranti dopo l’incendio di Moria: sue le foto della gallery qui sopra. Il fotografo italiano ha capito che lavorare lì non sarebbe stato semplice fin dai primi giorni, quando è stato aggredito per delle riprese fatte durante un sit-in di nazionalisti che ogni domenica si ritrova in piazza per onorare la bandiera greca. Per questo aveva scelto di muoversi stando attento a non dare nell’occhio, a non pubblicare materiale sui social, a essere sempre in regola con gli accrediti e con i documenti per le normative anti-Covid. Ma lo scorso 2 dicembre ogni premura è risultata vana: “Quel giorno stavo raccogliendo delle immagini fuori dalla zona del porto di Mitilene. Volevo riprendere il trasferimento in autobus di 32 migranti salvati poche ore prima durante un naufragio – spiega Campailla, che in quel momento era con un’amica, a Ilfattoquotidiano.it – Accanto a noi c’era un’emittente locale, a dimostrazione che lì riprendere era consentito. Finché due agenti in borghese e due poliziotti di frontiera si sono avvicinati e, senza identificarsi, hanno preteso la mia macchina fotografica per un controllo. Dopo avermi fatto impostare la lingua inglese, mi hanno costretto a formattare tutto il lavoro”.
A quel punto, il tragitto in auto verso gli uffici delle autorità portuali, senza spiegazioni. “Ci hanno fatto salire su una macchina civile nera. Eravamo in quattro, uno di loro non portava la mascherina. Da quel momento ci hanno imposto di non usare più il cellulare, c’era il divieto di comunicare con l’esterno. Volevo sapere se fossimo in arresto e per quale ragione. Ma loro hanno specificato che stavamo ‘solo andando a parlare'”.
Un atteggiamento, quello delle forze dell’ordine, che va avanti da tempo per la paura di essere immortalati in atteggiamenti violenti. È il caso del video amatoriale divulgato solo qualche giorno fa dal sito greco Stonisi News, in cui guardie di frontiera colpiscono col manganello dei richiedenti asilo disarmati. “Per quattro ore e mezza mi sono state fatte domande a raffica, sempre le stesse. Sembrava un interrogatorio, anche se non avevamo un difensore che ci rappresentasse, né sapevo quale fosse la mia colpa. Volevano sapere perché e da quanto tempo fossimo in Grecia, come mai io avessi fatto quelle foto – prosegue Campailla – Secondo loro mi trovavo lì da troppo tempo, insistevano nel dire che fotografare i migranti è vietato e che era da stupidi non saperlo”.
Quel che è successo al freelance italiano racconta di un clima intimidatorio sempre più pervasivo. Secondo quanto denunciato da Reporters Sans Frontières, soltanto a ottobre era toccato a quattro giornalisti tedeschi arrivati a Samos per girare un documentario subire sette ore di detenzione. Sorte simile è toccata a tre loro connazionali, Jan Teurich, Ole Jacobs e Arne Buettner, costretti lo scorso 17 novembre a un interrogatorio senza che venisse fornita alcuna ragione legale e rilasciati a 30 chilometri dal punto in cui si trovava la loro auto, come scritto nella denuncia che, come quella di Campailla, sarà resa pubblica dallo European centre for press and Media Freedom. “A me è capitato di essere addirittura attaccato da un poliziotto. Stavo riprendendo la scena di alcuni migranti spintonati senza ragione da uomini in divisa – spiega a Ilfattoquotidiano.it il giornalista Theurich che si trova a Mitilene da quasi un anno – e un poliziotto ha cominciato a colpirmi, ha distrutto il mio router portatile e mi ha detto di non tornare mai più lì. Solo che il nostro compito, in quanto giornalisti, è quello di continuare a riportare quello che succede. A prescindere da ogni minaccia”.
La classifica 2020 di Reporters Sans Frontières sulla libertà di stampa posiziona la Grecia al 65esimo posto su 180 Paesi analizzati. Ma l’avversione della polizia per il lavoro dei corrispondenti è all’apice anche perché è a partire dalla raccolta di materiale video che diverse testate straniere, tra cui Bbc e Der Spiegel, hanno fatto emergere la pratica dei pushback verso la Turchia, i respingimenti illegali di migranti appena giunti sul suolo greco.
E per evitare che venga raccolta altra documentazione, nel frattempo, l’attività giornalistica è fortemente scoraggiata attraverso interrogatori informali di cui non resta alcuna traccia, se non la voce di chi li subisce. “L’unico documento fisico che faccia riferimento alla vicenda è la multa che mi è stata fatta per presunte violazioni delle regole anti-Covid. Avevo i documenti per circolare ma sostenevano che non fossero conformi. L’ufficiale che mi ha sanzionato non li ha nemmeno guardati – conclude Campailla – Quando ha chiesto ai colleghi di poterli vedere, questi gli hanno urlato contro dicendo che doveva semplicemente fare sia a me che alla mia amica una multa da 300 euro. Sono stato costretto a firmare, pur non potendo leggere in greco e a farmi fare una fotografia. Si sono tenuti la lettera di accredito che mi consentiva di lavorare. E lasciandomi andare hanno detto che avrei dovuto ringraziarli per non avermi sbattuto in cella. Aggiungendo che da quel momento in poi, se fossi rimasto in Grecia, mi sarei dovuto limitare a fotografare il paesaggio”.