Resta un caso irrisolto l’omicidio di Lidia Macchi. I giudici della prima sezione penale della Cassazione hanno confermato l’assoluzione per Stefano Binda, ex compagno di liceo della vittima e unico imputato, dichiarando inammissibili i ricorsi presentati dalla procura generale di Milano e dalle parti civili. I supremi giudici hanno accolto dunque le richieste del sostituto procuratore generale, Marco Dall’Olio, che nel corso della requisitoria aveva sottolineato che “l’autore della poesia ‘In morte di un’amica’ è per forza l’autore dell’omicidio? Non c’è alcun elemento che conduca quella lettera all’omicidio se non una suggestione. Non corrisponde a Binda il Dna trovato sulla vittima e non è smentito il suo alibi”.
Un giallo che risale al 1987 quando la studentessa di vent’anni venne trovata morta in un bosco vicino all’ospedale di Cittiglio, nel varesotto, dove la giovane stava andando a trovare un’amica e che vede una svolta quasi trent’anni dopo con l’arresto di Binda, finito sotto processo in seguito a una perizia calligrafica su una lettera anonima inviata alla famiglia della ragazza. Contro l’uomo, ormai cinquantenne, c’erano, a dire dell’accusa, quei versi inviati i genitori della vittima, per posta, il giorno del funerale. Il 24 aprile 2018 la Corte di assise di Varese lo condanna all’ergastolo. Nel luglio dell’anno dopo invece i giudici della corte d’Assise di Appello di Milano lo assolvono per non avere commesso il fatto e viene scarcerato dopo tre anni e mezzo di detenzione.