di Gaetano Fausto Esposito*
Una delle conseguenze della crisi indotta dalla pandemia è il consumo dell’ingrediente fondamentale dello sviluppo alla base del commercio mondiale: la fiducia! Per Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’economia e appassionato critico di una globalizzazione senz’anima: “La fiducia è ciò che rende possibili i contratti, i progetti e le transazioni di ogni giorno; facilita il processo democratico, […] ed è necessaria alla stabilità sociale. […] E’ la fiducia più che il denaro che fa girare il mondo”.
Quando la fiducia rallenta, anche il mondo rallenta e, a maggior ragione quando il mondo rallenta, o addirittura si ferma, come è accaduto con il lockdown, si indebolisce anche la fiducia. Il sistema di regole multilaterali che governano il commercio mondiale può essere considerato un indicatore della fiducia a livello internazionale. Quanto più il commercio internazionale è ampio e aperto, quanto meno è condizionato da barriere di vario tipo, sia tariffarie che non tariffarie, in sintesi quanto più forti sono gli scambi tra paesi, tanto maggiore è il livello della fiducia globale.
Da diversi anni stavamo assistendo a un restringimento degli scambi internazionali, a una crisi del cosiddetto modello di multilateralismo nelle relazioni economiche – nato nel secondo Dopoguerra – di cui erano evidenti molti segnali: in Europa nel 2019, quindi prima dello scoppio della pandemia, gli scambi commerciali dell’Unione erano stati interessati da 43 nuove barriere tecniche e dazi, per un valore stimato fino a 35,1 miliardi di euro, soprattutto nei settori elettronica, automotive e ICT, un segno che il protezionismo si era radicato nelle relazioni commerciali.
In cima alla classifica per introduzione di nuove barriere commerciali ci sono Cina e Russia, seguite da Indonesia e Stati Uniti. Stati Uniti e Cina sono rispettivamente il primo e il secondo importatore mondiale, con una quota di quasi un quarto del complesso di beni acquistati, perciò si comprendono gli effetti negativi delle misure protezionistiche sugli scambi internazionali. Negli ultimi anni poi, anche a causa del sostanziale stallo dei negoziati per nuove regole nell’ambito della World Trade Organization (Wto), sono fortemente cresciuti gli accordi preferenziali bilaterali, dove singoli paesi concordano tra di loro condizioni commerciali.
Tuttavia questi accordi, se rappresentano un aspetto integrativo di regole generali, non possono ambire a sostituirle. Pensiamo alle cosiddette catene globali del valore, ossia alla ripartizione delle lavorazioni a livello internazionale, che hanno rappresentato una delle questioni più delicate del periodo pandemico. E’ in atto un profondo ridisegno delle catene del valore, ma la loro pervasività permarrà anche nel futuro, pur se forse si ridurrà un poco la distanza degli scambi: perciò non si può fare a meno di regole comuni, per avere certezza nei passaggi delle diverse componenti di sub-fornitura tra i paesi che compongono la “catena”.
La pandemia ha poi aggiunto una possibile ragione per giustificare l’imposizione di restrizioni al commercio internazionale. Lo stesso WTO ammette la possibilità di limitazioni quando sono in gioco questioni di “sicurezza nazionale”. Questa motivazione è stata addotta in diversi casi non solo per attività che riguardavano il settore della difesa, ma anche per quello dei cosiddetti Dispositivi di Protezione Individuale (camici, guanti, mascherine, occhiali protettivi, ecc.).
C’è quindi il concreto rischio di una spirale in cui i diversi provvedimenti protezionistici finiscano per generare maggiore incertezza, superiore anche a quella indotta dalla pandemia, e questa a sua volta eroda ulteriormente fiducia globale e commercio internazionale. Del resto negli ultimi anni c’è stata anche a una riduzione delle distanze nel commercio internazionale.
Un indicatore è l’andamento della cosiddetta elasticità agli scambi internazionali che rivela, almeno a partire dal 2016, una maggiore sensibilità alla distanza. E allora? Molti sono gli appelli delle organizzazioni internazionali, da ultima l’Ocse, per evitare che il post pandemia rafforzi le tendenze del recente passato, favorendo anche una politica di reinternalizzazione di parti di sub-fornitura nei singoli paesi.
Le stesse analisi dell’Ocse dimostrano che una reinternalizzazione di fasi produttive e riduzione delle catene globali del valore causerebbe un più basso livello di produzione e di reddito mondiale stimabile in un -5%, e in più ne aumenterebbe ulteriormente la variabilità e quindi il livello di incertezza.
Per ristabilire la fiducia ed evitare pericolose involuzioni, in uno scenario globale già molto compromesso, serve quindi rilanciare la cooperazione multilaterale, ma farlo su nuove basi, perché anche le regole e la governance del Wto appaiono superate e si sono consumate nel tempo. Il nuovo sistema di regole condivise deve tener conto delle trasformazioni non reversibili indotte dalla pandemia, come la fortissima spinta alla digitalizzazione, robotizzazione e de-materializzazione delle produzioni.
Ci sono segnali che riguardano proprio i due principali importatori mondiali. La nuova Amministrazione americana potrebbe avere un indirizzo meno restrittivo della precedente. Ci sono poi dichiarazioni dell’Ambasciatore della Repubblica della Cina in Italia sulla necessità di basare i rapporti internazionali su mutui vantaggi e sulla condivisione lasciando intravedere, al di là della chiara volontà di rinsaldare i rapporti con il nostro Paese, anche alcuni indizi più generali di apertura.
Segnali certo, ma che all’inizio di un nuovo anno, di svolta per la pandemia, possono rappresentare un buon auspicio per rimettere in marcia un percorso di multilateralità internazionale, riannodando i fili di una fiducia che negli ultimi tempi è andata smarrita, e con essa anche una buona parte del commercio internazionale.
* Segretario generale dell’Associazione delle Camere di commercio italiane all’estero e docente di Economia Politica all’Universitas mercatorum. Attualmente mi occupo del ruolo dei processi fiduciari nello sviluppo economico e di economia della sostenibilità istituzionale