“Fratello o noi gli mettiamo la min…. in bocca a tanti o ci andiamo a sedere perché ora si è montato la testa e sicuramente lo dobbiamo struppiare (ferire, ndr)”. Così parla Giuseppe Cusimano, lo stesso Cusimano che durante il primo lockdown distribuiva pacchi della spesa allo Zen, uno dei quartieri più poveri di Palermo, di cui lui, assieme a Francesco L’Abbate era diventato il capo mandamento, da quanto emerge dall’ultima operazione della procura di Palermo che ha portato ieri al fermo di 16 indagati per associazione mafiosa.
Secondo le indagini dei carabinieri, il 31 agosto del 2017 Cusimano e L’Abbate erano andati al largo del porticciolo di Sferracavallo per un incontro con altri uomini d’onore: Giulio Caporrimo, Nunzio Serio e Sergio Serio. Un altro incontro era poi stato organizzato al ristorante “Antica Posillipo”, sempre a Sferracavallo, il 26 settembre: è in questa occasione che, secondo gli inquirenti, Cusimano e L’Abbate vengono “punciuti”. Da quel momento il ruolo di entrambi crescerà fino a diventare i punti di riferimento per il quartiere.
Lo sono durante la prima ondata di coronavirus, quando creano una “sorta di welfare mafioso”, così lo definisce il generale Arturo Guarino, comandante provinciale dei carabinieri di Palermo. Un aiuto alle famiglie in un momento di grande difficoltà dovuto alla pandemia, per assicurarsi il consenso del quartiere. D’altronde “Cusimano e L’Abbate sono capaci di raccogliere nel quartiere almeno 300 voti per assicurare una carica politica a un militare che lo aveva loro richiesto per avvicinarsi a casa”, così scrivono gli inquirenti nella richiesta di fermo per 16 persone accusati a vario titolo anche di tentato omicidio, detenzione abusiva di armi ed estorsione. Si tratta dell’operazione Bivio, il cui esito dopo tre anni di indagine ha portato ieri alla luce la nuova mappa del controllo sul capoluogo siciliano, un controllo quartiere per quartiere.
Allo Zen c’è lui, Giuseppe Cusimano, uno dei cinque tra i 16 fermati che percepiscono il reddito di cittadinanza. È lui che distribuisce pacchi della spesa mentre contestualmente incute timore: “Io sono per la pace… ma se vengo per la guerra… è guerra vinta, mi vado a fare la galera ma vinco io, perché io vengo con un arsenale, le bombe mi porto, giubbotti antiproiettile… non mi manca niente”. Così parla ancora in una delle tante intercettazioni riportate nelle quasi mille pagine dell’indagine della procura di Palermo, guidata da Francesco Lo Voi. Un’indagine dei carabinieri coordinata dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca, e dai sostituti Amelia Luise, Dario Scaletta e Felice De Benedittis, che ha permesso di riaggiornare la mappa del controllo mafioso sui quartieri di Palermo, in particolare sulla tensione per il controllo di San Lorenzo-Tommaso Natale, dove le precedenti operazioni avevano portato in carcere i vecchi capi che hanno lasciato spazio a una “cosa come mi viene”, così la definisce Giulio Caporrimo. Non può chiamarsi Cosa nostra, secondo l’ex capo mandamento finito in carcere, non può averne il rango, perché “è munnizza… della munnizza stiamo parlando”.
Una mafia che all’uscita dal carcere dei suoi pezzi più forti si trova spiazzata dagli aggiornamenti e quindi di fronte a un bivio: riprendere o no il controllo? È quel che accade a Caporrimo che una volta fuori si trova a disprezzare la nuova gestione e si allontana, per poi tornare e riprendere il controllo, perché un mafioso è per sempre, e per sempre mantiene il suo ruolo. Perlomeno fino al successivo arresto. Nel frattempo l’ipotesi dell’omicidio per togliere di mezzo la cosiddetta “munnizza”, ovvero Francesco Palumeri, tra i fermati di ieri, che aveva preso il controllo del quartiere, secondo Caporrimo indegnamente: “Questo cornuto e sbirro ora ci sparo, ci faccio sparare”, promette l’ex capo mandamento durante i suoi sfoghi, solo o con interlocutori, sul nuovo andazzo mafioso.
Intercettazioni telefoniche e ambientali, servizi di videosorveglianza e di osservazioni, controllo e pedinamento. Un lavoro certosino che ha permesso agli investigatori di ricostruire la pressione mafiosa sull’economia locale. Grazie anche a cinque imprenditori che hanno denunciato le pressioni. “La crisi economica e sanitaria che ha colpito la comunità su scala locale ancorché nazionale – scrivono gli inquirenti – ha ulteriormente depresso un sistema economico già fragile perché minato dalla invadente e parassitaria azione mafiosa. Il tutto si traduce in un circolo vizioso che si autoalimenta e che induce gli esponenti mafiosi a rendere ancora più invadente l’azione parassitaria, depressiva ed impositiva proiettata sul territorio”. D’altronde, chi si rifiuta di pagare il pizzo è “uno sbirro” o “un locco di questi dice che non deve pagare… che merda di cristiano sei…”. Così parla Caporrimo, per esempio, di Zangaloro, noto imprenditore palermitano, re dell’hamburgeria nel capoluogo siciliano.
Qualcuno si rifiuta, altri denunciano, intanto ad agosto del 2020 le estorsioni subiscono un’impennata: le più recenti operazioni della procura di Palermo avevano portato dentro molti affiliati, così che cresce la gente da mantenere in carcere, da mantenere con le estorsioni di ambulanti o di imprenditori. Un’economia azzoppata dal controllo mafioso, in piena crisi pandemica, una doppia pressione sui quartieri poveri, dove vige una legge “parallela, che passa dal sopruso – si legge nella richiesta della procura – che non consente ad un privato di vendere un appartamento ed approda al ricorso agli affiliati mafiosi per sanare una contesa originata da futili motivi ma che rischia di approdare ad una resa dei conti armata. Bivio documenta ancora una volta come Cosa nostra abbia saputo creare una condizione di assoggettamento e di omertà, riuscendo ad inquinare l’economia locale. Molti degli odierni indagati, infatti, lavorano nel campo dell’edilizia ed hanno inteso avvantaggiarsi della loro affiliazione mafiosa per l’ottenimento di commesse”.
Una crisi economica ghiotta per la mafia che tenta così “di approfittare della attuale difficile situazione economica per imporre il loro welfare di prossimità e rafforzare così il consenso sociale”, sottolinea la ministra degli Interni Luciana Lamorgese. E continua: “Il bisogno per le famiglie e la assenza di liquidità per le imprese in tempo di Covid-19 rappresentano l’occasione per le organizzazioni criminali per accreditarsi con la popolazione ed esercitare il potere mafioso”.