Sono certo che quello che scriverò non piacerà a molti dei miei venticinque lettori, e magari a qualcun altro, ma io ve lo dico ugualmente. E lo dico senza giri di parole: sono del parere che il festival di Sanremo si debba fare con la presenza del pubblico in sala. Ovviamente vanno prese tutte le precauzioni, niente assembramenti né dentro all’Ariston, né dietro le quinte, né all’ingresso del teatro (ci mancherebbe), niente ristoranti pieni fino alle 3 di notte (peccato!), tecnici e giurati collocati in maniera consona alle esigenze sanitarie. Insomma, uno spettacolo televisivo come in realtà lo era già da tempo. A questa soluzione che richiede molta cura, molto impegno si fanno alcune obiezioni che mi paiono inconsistenti, inclini alla retorica e che mi permetto di smontare.
La prima è quella che lamenta lo spreco di denaro pubblico per un evento non certo essenziale. È quella meno sensata, che ogni tanto ritorna ma si scontra con la realtà dei numeri. Sanremo alla Rai (servizio pubblico, detesto la formula tv di stato) rende molto più di quanto costa. Per quanto costi parecchio, incassa di sponsorizzazioni e pubblicità ancora di più. Semplificando, trasferisce denaro di enti privati a un servizio pubblico. Chi, come me, è convinto che una forte presenza del settore pubblico nella società sia benefica, dovrebbe esserne felice. Il risultato di audience, che in questa situazione sarà prevedibilmente ancora più positivo, rafforzerà il servizio pubblico anche per il futuro.
La seconda è quella più complessa, un po’ sfumata, che mette insieme temi culturali, antropologici, psicologici, rischiando di cadere nella retorica. Chiamiamola “obiezione Lavia” visto che l’attore-regista si è molto esposto con parole dure sul tema.
Si indigna in nome di tutti coloro che hanno visto le loro attività chiuse per molto tempo o ridotte di molto, mentre Sanremo va in scena normalmente. Ristoranti, bar chiusi con danni economici enormi, cinema, teatri e musei chiusi con danni economici per chi li gestisce e culturali per tutti gli italiani che si dovranno accontentare di un prodotto culturalmente modesto. La Scala è chiusa, gli Uffizi sono chiusi, ma Sanremo è aperto: una vergogna, ecco perché siamo un popolo di ignoranti. A parte il confronto improprio con attività con non c’entrano nulla (bar e ristoranti) che fa leva solo sull’invidia e sul tanto peggio tanto meglio, anche il confronto con le altre manifestazioni dello spettacolo zoppica.
Sanremo si potrà fare per il semplice, banale motivo che ha un bilancio spese/introiti che gli consente di gestire le costose precauzioni, cosa che nessun altro evento o ente si può permettere. Non è bello, non ci piace ma è così. Inoltre, il pubblico presente che i curatori hanno preteso è un pubblico particolare, un gruppo di persone selezionate e verificate. Pensate che sia possibile creare un gruppo con le stesse caratteristiche e le stesse garanzie che va al ristorante, al cinema o in un teatro? Non scherziamo.
Da qui, però, nasce la terza obiezione che fa le pulci al progetto e si mostra disgustata dall’idea di un pubblico preselezionato, un insieme di figuranti, eterodiretti. Ma siamo sinceri, il pubblico di Sanremo non è mai stato un pubblico particolarmente spontaneo, un pubblico da concerto rock. Dirigenti Rai e famiglia che occupano le prime file, invitati, professionisti del settore, fan dei vari cantanti in gara (claque?) diffusi in platea.
Si può star certi che il gruppo selezionato assolverà degnamente a questa funzione che non è quella dello spettatore in senso stretto, ma piuttosto quella di parte dell’ambiente, di elemento un po’ decorativo. Il vero pubblico di Sanremo è un altro, è la grande platea televisiva di cui occorre occuparsi garantendogli un ottimo spettacolo che compensi in parte l’impossibilità di andare al cinema o a teatro. Perché c’è qualcuno che va abitualmente al cinema e a teatro e guarda anche Sanremo. Non è il caso di rievocare l’aneddoto della passione per il festival di Luchino Visconti e i suoi amici, credo lo conosca anche Lavia.