“Non posso prendermi una pausa. Cerchi di capire, prof, ho 26 anni: sono vecchia“. Con questa storia inizia il nuovo libro di Giovanna Cosenza, professoressa ordinaria di Filosofia e Teoria dei linguaggi all’Università di Bologna e blogger del Fatto.it. Il suo libro “Cerchi di capire, prof” (Enrico Damiani Editore, 2020) vuole essere un dialogo tra generazioni per raccontare chi sono i giovani di oggi. Attingendo ai suoi canali di comunicazione con gli studenti, dal blog ai colloqui durante il ricevimento e le lezioni, Cosenza racconta storie che propongono situazioni ricorrenti e grandi temi che si ripetono: il lavoro, gli stage, i genitori, la paura del futuro. Ogni storia non ha protagonisti “in carne e ossa”, ma “tipi umani”, così come ogni dialogo riecheggia più conversazioni. L’obiettivo è sfatare molti dei luoghi comuni che circolano sui ventenni di oggi (“bamboccioni“, “apatici”, “sdraiati”). E rispondere a una domanda: avere vent’anni oggi è così diverso da tanti anni fa?
Professoressa Cosenza, nel suo libro afferma che le sfide della vita “sono molto più simili negli ultimi 50 anni” di quanto non siamo abituati a pensare. Anche lei a vent’anni si sentiva “vecchia” come i suoi studenti?
È così da tante generazioni. Anche io un giorno mi sono svegliata e ho sentito questo peso, questa angoscia. Non è un caso personale ma un fenomeno sociale, che nel nostro Paese emerge ancora di più perché va sommato alle caratteristiche demografiche italiane. L’Italia è un Paese vecchio, in cui non si fanno più figli. I giovani sono come i panda, una specie in estinzione.
Da dove nasce questa angoscia sociale? E cosa fare per liberarsene?
L’unico modo per salvare la nostra società è ripensare a un serio dialogo tra generazioni. Credo valga sempre, a maggior ragione in una società ‘frantumizzata’ come la nostra, riconducibile alla nascita delle famiglie mono-nucleari. Nelle famiglie numerose c’era un forte scambio inter-generazionale, un passaggio di esperienza che non serviva a ripetere sempre lo stesso percorso di vita ma a dare idee e a creare confronto. Questo si è perso, quindi bisogna cercare di ricrearlo in un altro modo.
Nel libro lei si chiede che mondo possa essere quello che porta i ventenni a sentirsi finiti ancora prima di incominciare a vivere.
In realtà è un modello sempre uguale, che esiste dal Dopoguerra. Una pressione a correre per produrre sempre di più, in continua competizione. Il modello è lo stesso ma è cresciuto, c’è troppo di tutto. Così i giovani vengono cresciuti dai loro genitori con grandi pressioni a dare sempre il massimo, per arrivare sempre più in alto. Ma non c’è un limite, e tutto questo causa frustrazione. Non ci sono colpe da attribuire, è un modello interiorizzato da decenni che deve essere scardinato.
La pandemia come si è inserita su questo modello?
In questo senso il Covid-19 può essere un’opportunità per rallentare. In molte cose ci siamo dovuti fermare per forza. Può creare una pausa per guardarsi in faccia e confrontarsi. C’è voglia di potersi togliere la mascherina – quando l’emergenza sarà finita – per rivedere le espressioni e i volti. Bisogna imparare a rimettere al centro gli indici di benessere e felicità, non solo quanto è stato prodotto. Se si cogliesse l’occasione della pausa forzata per andare in questa direzione, sarebbe un bene.
Prima del Covid-19, lei consigliava ai suoi studenti di “prendere e partire” per uscire da un momento di crisi. Bisogna uscire dall’Italia per vivere meglio?
Non per forza, ma io credo che viaggiare sia indispensabile, perché lo è il confronto con le altre culture. Ci si può anche confrontare con un mondo diverso e poi decidere di tornare. Io non sostengo una visione dell’estero idealizzata: molti dei problemi che abbiamo in Italia si ritrovano in tutta la società occidentale. La pandemia ci ha insegnato tanto anche sull’estero, si sono sgretolati “miti” su Paesi come l’Inghilterra o la Germania che – abbiamo visto – hanno le nostre stesse difficoltà a gestire il virus. Il punto è che se il modello fa acqua da tutte le parti ma ci si irrigidisce nel mantenerlo in vita, non si va da nessuna parte. Ma partire e vivere immersi in un’altra cultura è fondamentale per i giovani, perché hanno l’occasione di vedere che ci sono vari modi per affrontare gli aspetti della vita, come il mondo del lavoro.
In una storia lei racconta di spingere i suoi studenti a chiedere il rimborso spese durante il tirocinio e di trovare molta resistenza da parte dei giovani. Da cosa dipende?
È una mia “battaglia” storica. Da quando sono stati introdotti gli stage in università, ho sempre insistito per far avere ai miei studenti un ‘gettone’, perché il lavoro va pagato. Ma da quando è stata approvata la legge che garantisce il rimborso per i tirocini extra curricolari, è diventato impossibile parlare di soldi. Fa parte di una cultura del lavoro che è tutta italiana. In questa mentalità, viene data “l’opportunità” di scrivere sul curriculum che si è lavorato in una grande azienda, quindi chiedere anche dei soldi sembra sconveniente. E sono proprio gli studenti a fare questo discorso. All’estero non esiste. Quello che cerco di far capire agli studenti è che chiedere un rimborso è un segnale di maturità e un’occasione di crescita sia per il giovane sia per l’azienda, che sceglie di investire consapevolmente su una persona.
Nel libro lei dedica un capitolo alla parità di genere. Come affronta l’argomento con gli studenti? E quale può essere la soluzione?
Introduco la questione di genere in ogni corso e in ogni materia, perché è un problema culturale e sociale. Quindi arriva sempre un momento in cui è naturale parlarne. Parto sempre dai dati: secondo il report annuale del World economic forum, l’Italia è 76esima su 153 Paesi per la parità di genere. Quello che ci penalizza fortemente è il ‘soffitto di cristallo’, che rende difficile a una donna proseguire nella carriera. Basti pensare che le donne studiano di più e si laureano con voti più alti: lo dice il portale Almalaurea. Ma già dopo un anno nel mondo del lavoro, si scopre che a parità di ruolo e di competenze le donne hanno uno stipendio più basso di quello dei loro coetanei uomini di almeno 200 euro e fino a 600. Secondo me, l’unico modo per aggirare il problema – che è culturale – sono le quote rosa: al 50% e imposte per legge. Noi donne rappresentiamo circa il 51% della società, la maggioranza, eppure continuiamo a essere discriminate. Se non adottiamo questa soluzione, per raggiungere la parità dovremo aspettare 120 anni. Basta negarci la verità, è un decennio che ci ripetiamo “se non ora quando?“.