A Cuba, si sa, il calcio non è una priorità. Lo può ben testimoniare Pablo Elier Sánchez, l’allenatore della nazionale, rimasto intrappolato nel suo domicilio di Pinar del Río, dopo che il governo è stato irremovibile, non condendogli una deroga alle norme anti-covid per poter raggiungere il resto del gruppo nel centro tecnico de L’Avana. Nulla da obiettare se non fosse che il campionato di baseball, vera e propria religione laica dell’isola, si sta continuando a giocare regolarmente, con le squadre autorizzate a spostarsi da una provincia all’altra nonostante durante il torneo si siano già verificati diversi casi di Covid-19. Insomma, due pesi e due misure.

La disparità di trattamento ha fatto infuriare la polemica sulle principali riviste sportive cubane, anche perché all’orizzonte dei Leones del Caribe ci sono le eliminatorie CONCACAF verso i Mondiali del 2022. Partite fondamentali per il futuro della sele cubana: “Tifosi, giornalisti e giocatori sono preoccupati perché, a poco più di un mese da queste partite cruciali, la nazionale non ha ancora iniziato la preparazione. Il calcio non chiede un trattamento privilegiato, ma semplicemente egualitario”, si è lamentato il giornalista Alexander Ramírez, ricordando la vecchia grandeur del calcio cubano. In effetti questo snobismo risulta piuttosto paradossale, se si pensa che i Leones del Caribe sono stati la prima nazionale caraibica a partecipare ad un Mondiale.

Era il 1938 quando, approfittando del massiccio boicottaggio delle squadre sudamericane pro Argentina, quest’ultima irritata con la FIFA per non aver mantenuto la promessa di far rispettare il principio dell’alternanza Europa-Sudamerica, los Leones del Caribe sbarcavano in Francia dopo una lunga ed estenuante traversata oceanica a bordo della nave Queen Mary. Così, all’improvviso, e senza passare dalle forche caudine degli spareggi, Cuba era diventata la prima formazione caribeña a partecipare alla più prestigiosa rassegna planetaria. Un evento tanto incredibile quanto inaspettato, anche per questioni politiche: solo qualche anno prima, con l’obiettivo di porre un freno all’immigrazione straniera nell’isola, il governo di Ramón Grau San Martín aveva varato la famosa “legge del 50%”, assestando un colpo devastante allo sviluppo del calcio, sport perlopiù praticato dalla folta comunità spagnola.

Non stupisce, quindi, che per stampa e addetti ai lavori la selezione di Cuba, che si era presentata con un comitiva di soli 15 elementi anziché i canonici 20, era considerata la principale indiziata a recitare il ruolo della cenerentola del torneo insieme alle Indie Olandesi Orientali. Dovevano essere della stessa opinione anche i calciatori della nazionale rumena, primi avversari dei cubani negli ottavi di finale, addirittura pronosticati come possibili finalisti dalla rivista francese L’Auto. Il più tranquillo di tutti era l’allenatore Alexandru Tane Săvulescu che, dopo aver assistito ad un allenamento dei cubani, era tornato alla base con un ghigno sul volto e una gran voglia di fare lo spaccone: “Gliene facciamo sette o anche di più”, aveva assicurato alla squadra. Addirittura l’ambasciatore rumeno in Francia, Dinu Cesianu, aveva già organizzato per la sera una cena di gala per celebrare la vittoria contro Cuba. Nessuno si sarebbe aspettato quello che poi accadde: 3-3, con doppietta del bomber Héctor Socorro, e verdetto da rimandare alla sfida di replay. Il più stupito dei Tricolori era sicuramente l’attaccante Ștefan Dobay, stella del Ripensia Timișoara, che prima della gara aveva sottovaluto i cubani, come poi ha scritto nella sua autobiografia: “Mi sembravano degli studenti in gita scolastica più che dei calciatori”.

Si sarebbe completamente ricreduto quattro giorni più tardi, quando i cubani vinsero 2-1 in rimonta grazie ai gol di Socorro e del capitano Tomás Fernández, nonostante la pesante assenza di un pilastro come Benito Carvajales, decisivo con almeno cinque prodezze nella prima partita. Il portierone, infatti, aveva di meglio da fare: una radio locale l’aveva ingaggiato come cronista e così, anziché prendervi parte, quell’incontro lo preferì raccontare a parole, costringendo l’allenatore José Tapia a correre in fretta e furia ai ripari schierando il dodicesimo. Juan Ayra, così si chiamava, non fece rimpiangere Carvajales, sfoderando una prestazione sontuosa, tanto da ricevere i complimenti del Divino Ricardo Zamora in persona. Nei quarti con la Svezia Carvajales tornò al suo posto, ma non ci fu comunque storia. Spietati come non mai, gli scandinavi si sbaragliarono con disinvoltura di Cuba, annegandola sotto una pioggia di reti, otto per la precisione: realizzando una tripletta a testa, gli ispiratissimi attaccanti dello Sleipner, Tore Keller e Gustav Wetterstrom, fecero registrare un record iridato ancora imbattuto (mai più, infatti, due giocatori della stessa squadra hanno segnato una tripletta nella stessa partita in un Mondiale).

Intanto i Leones del Caribe venivano accolti da eroi al loro rientro in patria. Quella sconfitta roboante non poteva macchiare la storica performance con la Romania, anche perché le giustificazioni non mancavano. Dopotutto, prima della partita un diluvio universale si era abbattuto su Antibes, trasformando il prato dello Stade du Forte Carré in una piscina. Un particolare rimpianto rimasto impresso fino alla morte nella mente Juan “el romperedes” Tuñas, l’ultimo superstite di quella memorabile avventura deceduto nel 2011, che quell’anno aveva appena vinto il titolo cubano con la Juventud Asturiana, prima di conquistarne due con il Club España, in Messico, negli anni ’40: “Prima della partita eravamo considerati addirittura favoriti, per la maniera con cui avevamo battuto la Romania. Ma fummo sfortunati: prima della partita venne giù un diluvio che rese il campo pesantissimo. Non eravamo abituati a giocare in quelle condizioni e perdemmo 8-0 anche per questo”. Da quel momento sono trascorsi quasi 83 anni e Cuba non è mai più tornata sul palcoscenico iridato. Probabilmente i Leones del Caribe non hanno ancora i mezzi per ambire ad una qualificazione, ma chiedono almeno di essere messi nelle condizioni di poterci provare.

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