“E se lo producessimo noi il vaccino Pfizer?”. È la domanda che si ripetono da giorni i vertici della sanità italiana, alle prese con i tagli delle forniture all’Italia annunciati dal colosso farmaceutico statunitense. Come noto, le dosi prenotate dal Governo italiano e dall’Unione europea in genere, non saranno quelle previste da contratto. E la stessa cosa sta già accadendo con AstraZeneca, nonostante sull’antidoto di Oxford – ancora in predicato per l’approvazione dell’Ema – ci sia anche il contributo della Irbm di Castel Romano. In ballo c’è la maxi-asta internazionale creatasi attorno ai primi farmaci approvati, con canali preferenziali nei confronti di alcuni stati, Usa e Israele su tutti. Come uscirne? Il governo francese, nei giorni scorsi, si è mosso mettendo in contatto Pfizer con Sanofi, colosso transalpino che sta per acquistare la licenza del vaccino americano per produrlo in casa propria. La domanda dunque è: in Italia si può fare la stessa cosa?
Nei giorni scorsi il farmacologo Silvio Garattini, fondatore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, ha lanciato un appello alle istituzioni, sulla scorta delle dichiarazioni arrivate a dicembre da Gino Strada: “Se ci sono ragioni importanti di salute pubblica – ha affermato Garattini – gli Stati possono chiedere o pretendere la licenza del farmaco per produrlo in grosse quantità”. L’idea piace al direttore sanitario dell’istituto Lazzaro Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, che a Ilfattoquotidiano.it dice: “È il tempo di trovare accordi, non di farsi la guerra. Potrebbe essere la soluzione più veloce, almeno per il breve periodo, finché non avremo il vaccino di Reithera”, la società il cui farmaco è attualmente sotto sperimentazione dello Spallanzani e con la quale il governo italiano, attraverso Invitalia, ha sottoscritto un accordo.
Possibilista Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana malattie infettive e tropicali (Simit) e direttore del reparto malattie infettive a Policlinico Tor Vergata di Roma: “In questo momento, sarebbe più veloce e sicuro investire sulla produzione di un farmaco che esiste già, come quello di Pfizer, piuttosto che puntare tutto su Reithera, che comunque è ancora alla fase 1 della sperimentazione. Il che non significa abbandonare il farmaco italiano, solo affrontare l’esigenza attuale”. Secondo Andreoni, fra l’altro, “non bisogna fossilizzarsi solo sui vaccini di Stati Uniti e Gran Bretagna” ma “prendere in considerazione anche i farmaci che arrivano dalla Russia e dalla Cina, che sono stati già somministrati a milioni di persone con effetti, sembra, egregi”. Per l’infettivologo romano, “in Italia esistono gli stabilimenti adatti alla produzione di questo tipo di farmaci, basterebbe solo adeguarli e investirci dei soldi, magari a Castel Romano, negli spazi della Irbm”.
Tra il dire e il fare, però, c’è di mezzo un oceano. E così, l’entusiasmo dei virologi viene smorzato da chi quel vaccino dovrebbe produrlo materialmente. Il colonnello Antonio Medica, direttore dello stabilimento chimico-farmaceutico militare di Firenze, invita alla calma: “Servirebbe innanzitutto una conversione importante delle strutture – spiega a Ilfattoquotidiano.it –. Purtroppo non è così semplice come sembra, il vaccino anti-Covid non è un farmaco qualunque. Servirebbe un investimento ingente e tempi molto lunghi”. Sulla stessa lunghezza d’onda Luigi Aurisicchio, fondatore e amministratore delegato di Takis, l’altra società di Castel Romano, vicino Roma – i suoi stabilimenti si trovano proprio di fronte quelli di Reithera – che ha messo a punto il vaccino anti-Covid, sebbene la sperimentazione debba ancora avere inizio: “Escludo che il nostro laboratori o qualsiasi altro possa produrre, da un giorno all’altro, il vaccino messo a punto da un’altra società. Anche se qualcuno ci fornisse la cosiddetta ricetta, non basta mischiare gli ingredienti per avere la pozione. Bisogna stabilizzare gli elementi, testare il farmaco, potrebbero servire mesi, gli stessi necessari ad avviare la produzione di un proprio vaccino”. Da ReiThera, invece, per il momento preferiscono non commentare.
Ma in Italia esistono le case farmaceutiche con il know-how necessario per la produzione di un vaccino in così poco tempo? Le aziende a bandiera italiana non sembrano in grado di reggere una pressione del genere. Secondo Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria, però, ci sono “molti stabilimenti” in grado di compiere un’impresa del genere, che comunque “non si potrebbe realizzare prima di 4-6 mesi”. “Lo stabilimento Catalent di Anagni, in provincia di Frosinone, ha già ricevuto da Johnson & Johnson il mandato alla produzione del suo farmaco – afferma –. Poi ci sono quelli della Glaxosmithkline di Siena, che sicuramente sono i più attrezzati. Sempre ad Anagni ci sono anche gli stabilimenti di Sanofi Italia”. Scaccabarozzi però invita alla calma: “Non bisogna farsi prendere dal panico, i ritardi ci sono ma è già stato un miracolo scientifico avere il farmaco in meno di un anno. A breve ne arriveranno una quindicina, poi servirà lo sforzo per vaccinare tutti nel più breve tempo possibile”.