Il lavoro, dichiarato morto da almeno quattro decenni, è tornato. Il coronavirus è riuscito non solo a disseppellirlo da tonnellate di libri e discorsi ipnotici sulla sua ingloriosa fine, ma anche a qualificarlo come “essenziale”. Più il lockdown si impone, più aumenta il distanziamento sociale e più il lavoro diventa essenziale.

Dopo averci assuefatti all’idea che, nell’era della conoscenza e dell’immateriale, il capitalismo sarebbe sopravvissuto anche senza il lavoro (cioè senza il suo sfruttamento), ecco che arriva il contrordine: il lavoro esiste, è importante, anzi essenziale! Ad affermare ciò sono, in primis, le confindustrie di tutto il mondo. La corsa a definire come “essenziale” ogni attività delle imprese l’abbiamo vista anche in Italia, quando quasi tutte le aziende, con trucchi e magie varie, si sono dotate nottetempo del codice Ateco.

Se però il lavoro è tornato in vita come “essenziale”, i lavoratori continuano a essere trattati come zombie, né vivi e né morti. L’aggettivo “essenziali”, nel loro caso, significa: essenziali per la valorizzazione del capitale. La riprova si ha nei mancati dispositivi di protezione anti-Covid (denunciati da tutti i sindacati), nelle riduzioni salariali (anche a fronte dell’aumento generale degli orari di lavoro), nel peggioramento delle condizioni lavorative a livello globale, nell’incremento della precarizzazione nonché negli scarsi sussidi ricevuti. Come si spiega questa contraddizione del sistema di produzione?

Non vi è nulla di imprevisto in questo andamento, afferma Ricardo Antunes nel suo ultimo libro, Capitalismo virale. Pandemia e trasformazioni del lavoro (Castelvecchi 2021, traduzione di Antonino Infranca), perché il metabolismo del capitale è profondamente antisociale, in quanto è, in ultima istanza, un “sistema autofagico” (p. 7). La distruttività del sistema è individuabile, secondo Antunes, nell’integrale sottomissione della produzione sociale – che dovrebbe servire ai bisogni umani e sociali – “agli imperativi dell’autoriproduzione del capitale”, producendo così “conseguenze devastatrici per l’umanità, fra le quali l’enorme disoccupazione, la distruzione ambientale, la mercificazione della vita, la quotidiana incentivazione a nuove guerre e conflitti armati…” (p. 10).

Per una maggiore comprensione analitica del carattere distruttivo della produzione, Antunes chiama in causa la programmata e crescente riduzione del tempo di vita utile dei prodotti: “Una volta che il sistema del capitale è tanto più redditizio quanto minore è il tempo di vita utile delle merci, allora la sua caratteristica può essere solo quella, in sé e per sé, di un sistema distruttivo, i cui imperativi lo spingono a creare sempre più merci” (ibidem).

Per il sociologo brasiliano, il capitalismo non ha alcun interesse a produrre beni durevoli per soddisfare i bisogni umani, avendo maggiormente a cuore l’amplificazione del “valore di scambio” delle merci attraverso lo sfruttamento della forza lavoro e il rapido recupero del capitale. Il precipitato ultimo di questo processo è la creazione di una miriade di lavori precari e informali, svolti da lavoratori esternalizzati, intermittenti, walmartizzati e uberizzati.

Se questo è lo scenario globale pre-pandemico, quello post-pandemico si prefigura decisamente più catastrofico. Antunes condivide quanto sostenuto da David Harvey, il quale vede nella classe lavoratrice la principale vittima della pandemia in corso: “Il Covid-19 presenta tutte le caratteristiche di una pandemia di classe, genere e razza. Nonostante gli sforzi per mitigarla siano convenientemente occultati nella retorica del ‘siamo tutti uniti in questa guerra’, le pratiche, in particolare quelle operate dai governi nazionali, suggeriscono motivazioni più oscure” (p. 14).

In questo quadro desolante, l’autore fornisce innumerevoli indizi sulla tendenza, già ampiamente verificata durante la pandemia, dell’aumento della precarietà e dell’orario di lavoro nello smartworking, nella didattica a distanza, nel digital delivery, etc. Così, la ricetta del “capitale pandemico”, secondo Antunes, non prevede maggiore occupazione e lavoro dignitoso, ma più lavoro flessibile, informale, intermittente, precario e sempre meno pagato.

Nell’ultimo capitolo del libro, l’autore, come è sempre nel suo stile, non si rassegna alla realtà data e non si limita all’analisi dell’esistente, ma lancia al mondo, e in particolare alla classe lavoratrice, la sfida di pensare un modello alternativo per sconfiggere il “sistema di metabolismo antisociale vigente”. Nello specifico, questo significa “trovare nel presente le condizioni per fermare la crisi pandemica con l’appoggio vitale della scienza e, allo stesso tempo, cominciare a ridisegnare un altro sistema di metabolismo veramente umano e sociale” (p. 29).

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