Per tutti quelli che Il Vecchio che leggeva romanzi d’amore si legge di filata, in un attimo fatato e diventa all’improvviso uno dei libri della vita, c’è un libercolo appena uscito che fa per voi. S’intitola Luis Sepulveda – Il ribelle, il sognatore (Guanda) e l’ha scritto Bruno Arpaia. Collega, amico, confidente di Lucho, l’autore di Tempo perso e Qualcosa là fuori (sempre Guanda) incornicia Sepulveda in un dipinto ad olio per nulla agiografico, venato di una struggente malinconia di fine novecento, su quello scrittore quasi per caso, abbracciandolo e abbracciandone più che la carriera, la vita. Così se di bignami sull’autore di origine cilena se ne scrivono tanti, quello che più colpisce nell’essenziale taglio di Arpaia è quello di far emergere il dettato sognante, magico e politico della letteratura del nostro, amalgamandolo nell’avventuroso e doloroso percorso di sopravvivenza fisica dell’uomo in una fuga continua dalla dittatura di Pinochet che tocca tre continenti e finisce nella casa di Gijon nelle Asturie spagnole. Finalmente si fa chiarezza sull’appartenenza piena di Sepulveda al GAP del presidente Allende, se ne segue l’errare in esilio dopo i due arresti e le torture negli anni settanta e ottanta che lo portano ovunque: nella prima fuga tutto il continente sud e centro americano, come un Che ripudiato, fino in Ecuador e tra i sandinisti del Nicaragua; poi in Europa (Amburgo, Parigi, la Spagna e la Svezia) ed in mezzo una sortita africana e un lungo viaggio sulle navi di Greenpeace a mettersi in mezzo tra baleniere omicide e petroliere tossiche. Ancora però nulla è sgorgato dalla penna di Sepulveda. Fino a quando all’improvviso riemergono le sensazioni provate durante una spedizione nella selva amazzonica. Lucho professore universitario ecuadoregno antropologo che segue un censimento degli indios shuar da parte dell’Unesco ma con dietro ricchi petrolieri. I semini letterari che germogliano de Il Vecchio che leggeva romanzi d’amore sono stati gettati inconsciamente qui. Arpaia però è abile nel mescolare le carte tra lo sviluppo di una bibliografia che prima affronta un passaggio cruciale tra le “bandiere rosse” e la “novela negra”, – ovvero il noir che esce dal ghetto sterile del genere e si plasma con l’intreccio costante tra crimine e politica di Un nome da torero – che poi si afferma internazionalmente popolare e gentile con un libro che dovrebbe essere per ragazzi, ma che sarebbe obbligatorio per molti adulti pavidi, de la Storia di una gabbianella e di un gatto che le insegnò a volare (“vola solo chi osa farlo”) e si consacra con quella letteratura di viaggio (“mi piace il viaggio ma non la vita nomade”) di Lucho incantato ad osservare l’amata Patagonia. “Un narratore asciutto, intenso, padrone assoluto di una delle qualità postulate da Calvino: la leggerezza”, scrive Arpaia che poi offre a Sepulveda di nuovo lo scenario umano del privato, la rocambolesca storia di amore e di vita con la compagna Carmen, l’ordinazione al ristorante italiano “come primo un piatto di pasta e come secondo un piatto di pasta” e quella generosità da “bestsellerista del gruppo” con gli amici scrittori, fotografi, giornalisti (“amici sul serio, anche se facevano lo stesso mestiere e avrebbero potuto sentirsi in concorrenza”) che non sembra avere eguali. Infine, anzi all’inizio del libro, il lampo maledetto di quel Covid che se lo porta via in un amen e che non pare vero. Lasciateci però un triste solitario e definitivo addio, anzi arrivederci, a Sepulveda che Arpaia recupera a pagina 149. Poche righe sulla morte di Pinochet. Inequivocabili e potenti come solo un tuono dal cielo. “È morto senza pena né gloria, così come ha vissuto i suoi novantuno anni di miserabile vigliacco, a cui si riconoscevano solo tre talenti: tradire, mentire, rubare. Di lui non resta assolutamente nulla degno di essere ricordato, forse il fetore, che ben presto sarà disperso dai venti leali del Pacifico”. Voto (con “pioggerellina pertinace” delle montagne asturiane): 7+