“Andare a vedere anche là dove nessuno vuole andare e testimoniare la verità”, queste le parole che Bergoglio ha rivolto ai giornalisti nell’Angelus del 24 gennaio. Un messaggio che ha risuonato nella mia mente, soprattutto in questi giorni nei quali mi trovo in Colombia per un progetto che riguarda le donne venezuelane migranti. Nel mio lavoro di cooperante, attivista e di ricercatore universitario ho spesso dovuto e voluto lavorare in luoghi dove tutte le ingiustizie del mondo trovano manifestazione e non è un mistero che, per migliaia di persone, proprio la Colombia sia oggi un dantesco girone dell’inferno.
A Bogotá (la capitale) l’antro della bestia si trova tra la 19esima e la 22esima strada, nello spazio compreso tra las carreras 11 e 17. Ci troviamo nel quartiere Santa Fe, un luogo che da circa 10 anni è stato socialmente e istituzionalmente accettato come il barrio de tolerancia (quartiere di tolleranza) della capitale della Colombia. Giorno e notte (prima del Covid-19 e durante il Covid-19) centinaia di donne e bambine sopravvivono vendendo i loro corpi al cliente di turno.
Prostituzione, droga e delinquenza: un mix non casuale promosso e imposto da una povertà strutturale, da una violenza di ordine e regime di genere che toglie alle donne la dignità di esseri umani e le relega a meri strumenti di possesso, dominio e conquista. La violenza, la discriminazione e l’oppressione, lo sappiamo bene, sono intersezionali e non stupisce dunque che come ultime tra le ultime si trovino le donne e le bambine venezuelane migranti, le vere protagoniste contemporanee del quartiere di Santa Fe.
Ad oggi in Colombia, secondo le stime di Unhcr e Oim, sono circa 1,7 milioni i venezuelani migranti, più della metà dei quali sono donne: la più alta concentrazione di questi migranti si trova proprio a Bogotá.
Nei primi giorni di esplorazione del quartiere non potevo credere che così tante bambine dai 12 anni in su potessero esercitare la prostituzione alla luce del sole senza nessun intervento dell’autorità pubblica. Ho pensato subito al libro Sin tetas no hay paraíso (senza seno non c’è paradiso) dello scrittore colombiano Gustavo Bolívar: drammatico romanzo ispirato alla vita reale di due ragazzine di Pereira (Colombia) che si prostituivano con i narcotrafficanti per accedere ad una vita di lusso e aiutare le loro famiglie.
La situazione di queste bambine è pero vincolata in molti casi al processo migratorio. Sono arrivate in Colombia dal Venezuela, molte in modo illegale (passando le cosiddette trochas), non hanno documentazione e vengono drogate e prostituite spesso proprio dai parenti o da chi si “occupa” di loro. Riempiono le strade del quartiere, mischiate tra le “colleghe” più grandi e le donne transessuali, in un vorticoso e morboso passaggio di possibili acquirenti che con sguardi animaleschi scrutano le prede.
Una visione raccapricciante, un pugno allo stomaco che indigna e riempia di rabbia. Per capire meglio la situazione ho deciso di parlare con alcune delle donne che dal Venezuela sono arrivate a Sante Fe ed è così che conosco Nancy e Camila (nomi di fantasia). Nancy ha 24 anni e viene da Caracas, Camila ne ha 27 e viene da Yaracuy. Tutte e due anno lasciato l’università per viaggiare verso la Colombia, scappare da una Venezuela che mi dicono senza futuro e provare a sopravvivere.
Nancy è in Colombia dal 2017, Camila dal 2015, entrambe sono madri ma con situazioni molto diverse. La prima è diventata madre in Colombia e il suo compagno (colombiano) la prostituisce e la tiene in un regime di schiavitù de facto. Lui ha 15 anni più di Nancy, ha scontato una pena decennale in carcere per tentato omicidio, è paziente psichiatrico, tossicodipendente: tutte cose che aveva nascosto a Nancy all’inizio della loro relazione.
Camila era già madre di due bambini quando ha deciso di partire, il neonato è rimasto in Venezuela con sua cugina (Camila è orfana di padre e madre) e lei ha viaggiato con la piccola di due anni in braccio. Entrambe hanno fatto tappa a Cúcuta prima di atti arrivare a stabilirsi a Bogotá. Covid o non Covid, la mattina quando si svegliano sanno che dovranno trovare almeno 3 clienti per pagare tutte le spese di alloggio, alimentazione, droga (nel caso di Nancy) e babysitting (nel caso di Camila).
Un cliente paga per el rato (circa 20 minuti) la cifra di 30mila pesos colombiani (7 euro) ma 6mila vanno all’hotel di turno che offre le stanze per consumare il rapporto. Nancy e Camila vivono come la maggior parte dei migranti venezuelani in quelli che vengono chiamati pagadiario: fatiscenti complessi abitativi dove si paga giornalmente una quota per usufruire di un letto in camerata o di un monolocale. I prezzi variano dai 6mila pesos a persona (camerata) a 30mila per gli ambienti più grandi dove vivono le famiglie (questo è il caso di Nancy e Camila).
Entrambe vivono una morte in vita e mi confermano che l’unica luce in questo buio sono i loro figli.
Queste sono solo due delle migliaia di storie delle donne della diaspora venezuelana costrette, in Colombia e non solo, ad una vita che non è tale. Se a questo aggiungiamo che in Colombia la giustizia tratta e vede le donne così come gli uomini vedono e trattano le donne, possiamo capire il grado di estrema violazione dei diritti umani fondamentali a cui queste donne e bambine sono sottoposte.