Massimiliano Cappello, detenuto dal 2009 e scarcerato per l’ultima volta nell’estate 2019, non appena tornato libero avrebbe ricominciato a tessere la tela criminale del clan tramite alcuni incontri riservati e gestendo, attraverso un uomo di fiducia ma anche scendendo in campo in prima persona, una delle più redditizie piazze di spaccio del capoluogo etneo, quella nel quartiere San Giovanni Galermo. Otto fermi e quattro arresti
Un clan mafioso rimasto senza capi carismatici ma comunque intenzionato a tornare ai fasti di un passato non troppo lontano. Lo stesso che consentì di mettere in secondo piano la potente famiglia di Cosa nostra dei Santapaola. Sarebbe stato questo il contesto in cui Massimiliano Cappello avrebbe cercato di riorganizzare la cosca catanese dei Cappello-Bonaccorsi, nata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta per volontà del più noto fratello ergastolano Salvatore, in carcere dal 1993. Il progetto criminale è racchiuso nell’ultima inchiesta della Squadra mobile di Catania. La scorsa settimana gli agenti, con il supporto del servizio centrale operativo di Roma, hanno eseguito otto fermi e quattro arresti in flagranza di reato. Lunedì, come accertato dal fattoquotidiano.it, si sono invece tenute le udienze di convalida.
“La famiglia è tornata, andate a nascondervi. Ci sono i vecchi”, diceva un uomo mentre le microspie registravano. Il vecchio, nonostante i suoi 53 anni, sarebbe proprio Massimiliano Cappello, detenuto dal 2009 e scarcerato per l’ultima volta nell’estate 2019. Non appena tornato libero l’uomo avrebbe ricominciato a tessere la tela criminale del clan tramite alcuni incontri riservati, in appartamenti messi a disposizioni da altri affiliati, e gestendo, attraverso un uomo di fiducia ma anche scendendo in campo in prima persona, una delle più redditizie piazze di spaccio del capoluogo etneo, quella nel quartiere San Giovanni Galermo. Il 24 novembre 2020, all’indomani dei 101 arresti seguiti all’operazione Skanderbeg, Cappello avrebbe preteso l’immediata riorganizzazione di vedette e pusher, proponendo alla sorella di un affiliato arrestato di “ricominciare a lavorare fermando le macchine”.
Il rinascimento dei Cappello però avrebbe coinvolto anche i giovani, ma sempre seguendo la linea di sangue. Come nel caso del 26enne Salvatore Lombardo junior. Pure lui finito in manette venerdì scorso con l’accusa di essere al vertice di un gruppo criminale collegato alla cosca. Lombardo è figlio del capomafia detenuto Giuseppe Salvatore, conosciuto come ‘u ciuraru (il fioraio, ndr). Quest’ultimo, oltre a essere cognato del boss Giovanni Catanzaro, è cugino di Massimiliano e Turi Cappello. Insieme alla droga, Lombardo junior avrebbe avuto a disposizione una “immensa” quantità di armi. Alcune di queste, stando al racconto di del pentito Salvatore Giarrizzo, ritrovate lo scorso anno dalle forze dell’ordine nei pressi di un lido balneare della costa catanese.
Altra ossessione del 26enne sarebbe stata quella per le telecamere di videosorveglianza. Piazzate lungo le strade dei villaggi marittimi Ippocampo di mare e Campo di mare, dove abitano Lombardo e un cugino, Sebastiano Cavallaro, ritenuto il suo braccio destro. “Ne ho comprate due, possiamo guardare ovunque”, diceva al parente. Gli indagati avrebbero progettato pure di installare un occhio elettronico nei pressi degli uffici di polizia, così da potere osservare i movimenti delle forze dell’ordine. “Una la mettiamo vicino la caserma dei carabinieri – dicevano – che prende là dentro così vediamo se si stanno sistemando”.
Lombardo junior avrebbe potuto contare anche su un consolidato canale spagnolo per i rifornimenti di stupefacenti. Niente marijuana o cocaina ma amnèsia: la droga che cancella i ricordi, ottenuta con la cannabis allungata con gocce di metadone, eroina o altre sostanze chimiche. I nomi di Cappello e Lombardo nei mesi scorsi sono finiti, pur non essendo indagati, anche nell’inchiesta sulla morte di Enzo Scalia e Luciano D’Alessandro, uccisi durante uno scontro a fuoco tra i Cappello e il clan rivale dei Cursoti. Uno screzio e un pestaggio, avvenuto il giorno prima, terminato nel sangue 24 ore dopo quando 13 motorini, con a bordo 26 persone in cerca di vendetta, si recarono tra i palazzoni del quartiere Librino, nella periferia sud di Catania. Tra i partecipanti, secondo alcuni testimoni che poi hanno parlato con gli investigatori, ci sarebbero stati anche i due presunti boss.