di Serena Verrecchia
Hanno vinto loro, come era prevedibile. Il profilo “alto”, l’establishment, il Paese che cambia tutto per non cambiare niente. Quello che demolisce senza ricostruire, che lascia a terra le macerie perché poi finisce che qualcosa da dissotterrare al momento giusto si trova sempre.
Ha vinto Matteo Renzi. Hanno vinto la megalomania e l’impertinenza di una delle forze politiche meno legittimate dal consenso popolare. Hanno vinto i famosi “poteri forti”, un’entità astratta e incorporea, ascrivibile a un sistema di valori che non mette mai le persone al centro. Un sistema disabituato alla generosità, alla gentilezza, all’interesse per le sorti degli altri, all’empatia.
Credevamo davvero che un Presidente del Consiglio prelevato in tutta fretta da una quotidianità pressoché ordinaria potesse resistere fino alla fine in un diabolico gioco di potere? Credevamo davvero che una persona normale, lontana dagli schemi della politica, aliena a logiche di partito e interessi elettorali, potesse reggere sotto la pressione di perversi ingranaggi di sistema? Suvvia, siamo seri. Non è il 50-60% di gradimento presso il popolo (già) sovrano a metterti in salvo dal fuoco incrociato di lobby, gruppi editoriali, organizzazioni economiche, club privati, appetiti politici, brama di potere, gelosie. Specie se sei un leader con le spalle scoperte che prova a perseguire sempre l’interesse generale. A discapito proprio di quegli appetiti e di quei languori che insozzano le dita unte di chi ha fame di potere. Di chi ha sempre fame di potere.
Ha vinto l’ingordigia estatica di chi gioca sulla pelle della gente, di chi non sa guardare oltre la propria isola, ma gironzola famelico solo entro l’arcipelago ristretto di interessi collaterali.
Non ha vinto Conte, non avrebbe mai potuto vincere Conte. Perché “non è un politico”. Perché a Confindustria dava prurito, perché ai giornalisti col guinzaglio sembrava privo di “visione”, perché ai tanti giuristi, economisti, analisti, europeisti, arrivisti e tuttologisti di questo Paese appariva inadatto. Troppo decisionista e troppo tentennante, troppo accentratore e troppo burattino, troppo buono e troppo spudorato. Troppo popolare. Troppo.
Alla fine hanno vinto loro, in barba a qualsiasi indice di gradimento popolare. Arrotolandosi sui meccanismi cinici della politica, giocando d’azzardo mentre gli anziani venivano decimati, le terapie intensive annaspavano, le saracinesche dei locali restavano abbassate e le persone non sapevano (e non sanno) come reinventarsi.
Hanno vinto quelli che sono stati pazienti, che hanno atteso in agguato che il lavoro sporco lo facesse qualcun altro al posto loro. Hanno tributato ovazioni quando la partita del Recovery è stata portata a casa con successo, poi hanno calato la lama, pugnalando alle spalle. Mettendo in discussione tutto, senza esitazione. Hanno rotto la politica, l’hanno fatta a pezzi, accanendosi sui resti di quel poco di buono a cui cercavamo di appigliarci. Senza che noi potessimo fare nulla, senza che nessuno ci abbia chiesto un parere.
Ora è iniziato il tempo dei costruttori, per somma gioia dei gruppi di potere, mai così giubilanti da diversi mesi a questa parte. Per il tempo dei galantuomini, non eravamo ancora pronti.