La competizione, per come la conosciamo oggi, è nata nel 2005, dopo un edizione pilota disputata cinque anni prima, ed è stato pensato per essere una sorta di evoluzione della defunta Coppa Intercontinentale. Cosa sarebbe potuto accadere se il Mondiale per Club si fosse disputato con questo format sin da principio? Ecco le squadre che avremmo apprezzato
Il Mondiale per club è un’invenzione piuttosto recente. È nato nel 2005, dopo un edizione pilota disputata cinque anni prima, ed è stato pensato per essere una sorta di evoluzione della defunta Coppa Intercontinentale, allargata a tutte le confederazioni calcistiche mondiali. Insomma, non più un tavolo riservato solamente a Europa e Sudamerica, ma aperto anche ad Africa, Asia, Nord-Centro America e Oceania, oltre ai campioni nazionali del Paese ospitante. Da quel momento solamente in quattro occasioni la finale non è stata una battaglia tra UEFA e CONMEBOL (2010, 2013, 2016, 2018). Ma cosa sarebbe potuto accadere se il Mondiale per Club si fosse disputato con questo format sin da principio, e quindi in epoche nelle quali il rapace neoliberismo di oggi non aveva ancora avuto modo di saccheggiare i migliori talenti di questi continenti? E quali formazioni, che non abbiamo mai visto e sconosciute ai più, sarebbero potute salire sul tetto del mondo? Cosa, esattamente, ci siamo persi?
Gli esempi non mancano. Tutte le confederazioni, eccetto l’OFC, hanno avuto formazioni che avrebbero tranquillamente potuto dire la loro in un ipotetico Mondiale per Club. I più sfortunati di tutti, senza dubbio, sono stati i nigeriani dell’Enymba, fuori tempo massimo per un pelo. La squadra di Enyimba e dell’ex interista Obinna, che disputò una storica amichevole contro l’Inter a San Siro nel 2001, si è laureata campione d’Africa nel 2003 e nel 2004. Dunque, solamente un anno prima dell’avvio ufficiale della FIFA Club World Cup. Una beffa mai dimenticata dal magnate dell’editoria Orgi Uzor Kalul, ex governatore dello Stato di Abia e presidente dell’Enyimba, anche se l’obiettivo socio-politico della squadra a suo dire era stato comunque raggiunto: “Abbiamo usato il calcio per unire tutte le etnie del Paese”.
Qualcosa di simile è accaduto anche con l’Hafia di Conakry, tre volte campione d’Africa negli anni’ 70. I biancoverdi erano praticamente la nazionale guineana (finalista in Coppa d’Africa nel 1976) travestita da squadra di club e non era un mistero il fatto che godessero delle simpatie del presidente Sékou Touré. Un’operazione di convenienza politica: per il leader del PDG, nonché uno dei padri dell’indipendenza guineana, la squadra era un formidabile strumento di propaganda con cui accreditarsi agli occhi del continente. Con degli appoggi così tanto in alto, non è stato difficile per l’Hafia assemblare un dream team e dominare il calcio africano in un’epoca nella quale le formazioni subsahariane dettavano legge nel continente.
Tutto è iniziato il 22 dicembre 1972. Quel giorno l’Hafia, guidata dalla regia di Chérif Souleymane e dalle magie di Pétit Sory, ha espugnato 2-3 il Nakivubo Stadium, il vecchio stadio di Kampala, battendo gli ugandesi del Simba e coronando finalmente il sogno di piantare la bandierina sulla vetta più prestigiosa d’Africa. I biancoverdi di Conakry si sarebbero ripetuti nel 1975, battendo nell’ultimo atto i nigeriani dell’Enugu Rangers, e nel 1977, quando alzarono la Champions africana dopo aver superato in finale i ghanesi degli Hearts of Oak. Nel mezzo, un anno prima, i guineani avevano anche perso una finale, sconfitti dagli algerini del Mouloudia Club d’Alger: “Eravamo troppo fiduciosi e abbiamo preso questa gara troppo alla leggera”, ha ricordato di recente Chérif Souleymane, leader di quella Hafia e unico calciatore guineano della storia ad aver ricevuto il Pallone d’Oro africano. Una debacle costata molto cara alla squadra: furente per quella disfatta, infatti, Sékou Touré, ha punito i giocatori rinchiudendoli per un paio di giorni a Camp Boiro, un campo di tortura popolato perlopiù da dissidenti politici.
Il tramonto definitivo dell’Hafia, però, è arrivato nel 1978, in una sorta di passaggio di consegne con un’altra grande squadra dell’epoca, il Canon di Yaoundé, già campione nel 1971 e pronto a ripetersi nel 1980. Una squadra fenomenale, celebre per il suo stile di gioco innovativo per l’epoca, e che la stampa dell’epoca definiva spesso “galattica”. Non a caso: nel Canon in quegli anni figuravano alcuni dei migliori giocatori africani di tutte le epoche. Gente come Manga Onguene, Theophile “il dottore” Abega, ma soprattutto Thomas N’Kono, il leggendario portiere del Camerun nelle Notti Magiche di Italia ’90, nonché idolo d’infanzia di un certo Gianluigi Buffon. Giocatori galattici, appunto.
Spazio in quegli anni avrebbe trovato sicuramente anche il Cruz Azul, vero e proprio schiacciasassi della CONCACAF tra il 1969 e il 1971. Era quella l’epoca d’oro dei messicani, soprannominati “La Máquina Celeste” per la capacità di sbarazzarsi regolarmente degli avversari grazie ad un gioco aggressivo, intenso ed esteticamente appagante. Un apodo, come si dice da quelle parti, nato proprio per descrivere la straordinaria organizzazione di quella squadra, guidata da campioni come Javier “Kaliman” Guzmán, Fernando Bustos, Gustavo Peña (morto qualche giorno fa a causa del Covid) e i gemelli del gol Horacio Salgado ed Eladio Vera. “Ci hanno dato questo soprannome perché nella nostra squadra tutti i pezzi erano sincronizzati. Anche se cambiavamo i giocatori, perché alcuni erano infortunati o squalificati, il nostro stile di gioco non cambiava mai”, ha spiegato Guillermo Álvarez, lo storico presidente cruzazulino. Una supremazia messa in discussione dal mitico Transvaal, squadra surinamense due volte campione della CONCACAF (1973 e 1981), grazie ai gol di Edwin Schaal, uno dei goleador più prolifici della storia della Champions centro-nordamericana, anche se trascorse gli ultimi anni di carriera da libero difensivo.
Per trovare un degno ambasciatore, infine, l’Asia avrebbe dovuto attendere gli anni ’90, con l’esplosione del fenomeno Thai Farmers Bank. La formazione thailandese, di proprietà di una prestigiosa banca locale, tra le sue fila non aveva nessuna stella europea o sudamericana a fine carriera, ma riuscì ugualmente a conquistare per due volte consecutive la Champions asiatica (1993, 1994). Una grandeur effimera, evaporata con l’avvento del nuovo millennio. Non a causa di un decadimento sportivo, ma per colpa di una drammatica svalutazione monetaria, innescata da un debito estero ormai insostenibile. Insomma, cose che possono capitare quando sei nella mani di una banca.