A conclusione del mandato esplorativo di Roberto Fico, in una giornata che sarebbe meglio dimenticare ma che non dimenticheremo, è arrivata la parola fine da parte del Capo dello Stato almeno sul primo estenuante e avvilente tempo di questa crisi premeditata da troppo tempo, verosimilmente fin dalla nascita dello stesso Conte 2, a cui Matteo Renzi, con inusitata generosità, come amano ripetere molti italovivi, volle con slancio dare vita.

Con determinazione ancora maggiore e con una spregiudicatezza malevola nei confronti del paese prima ancora che degli alleati di governo e dell’odiatissimo presidente del Consiglio, Renzi si è dedicato dopo la demolizione del Conte 2 all’aborto del Conte 3, a cui ha finto di dare un’opportunità solo per aprire una pseudo-trattativa fondata su pretese umilianti nei confronti degli interlocutori, su provocazioni crescenti, sull’indisponibilità mai rientrata a convergere sul nome di Giuseppe Conte.

Qualsiasi disponibilità da parte del M5S anche sulla giustizia, compresa la difficile e fin troppo generosa apertura sul lodo Orlando che avrebbe pesantemente condizionato se non impedito l’entrata in vigore della riforma della prescrizione portata avanti da Bonafede e tema identitario per il Movimento, è stata respinta sdegnosamente da Italia Viva come insufficiente.

Naturalmente nella girandola di dichiarazioni, messaggi, interviste fino all’ultimo istante utile prima della rottura per le poltrone – e non solo quelle che pretendeva per Iv (difesa, lavoro, infrastrutture) ma più ancora quelle che voleva sfilare agli alleati-nemici (giustizia, lavoro, economia, istruzione) – Renzi non ha fatto che ripetere quanto fosse disponibile a fare un accordo come aveva promesso al Capo dello Stato e che avrebbe fatto di tutto per mantenerlo.

Solo che come lamentava nell’intervista alla Stampa alla vigilia del fallimento che ha teleguidato con veti, diktat e interferenze sui ministri altrui, “Pd e 5S sono rimasti arroccati, chiusi su temi sui quali mi aspettavo aperture come la giustizia” e denunciava anche “la resistenza” a sottoscrivere un non meglio definito documento di intenti “chiaro nei dettagli” nonché “vincolante” per il presidente del Consiglio la cui premessa doveva essere “discontinuità nei programmi e nei ministri”.

Insomma: in un delirio di onnipotenza con ricadute palesemente incostituzionali, lo statista di Rignano pretendeva di stilare un programma di governo, di imporlo agli azionisti di maggioranza del medesimo in assenza di una chiara designazione da parte sua del nome del presidente del Consiglio, per poi rifilare tutto il pacchetto, inclusa la bicamerale per il Recovery e riforme auspicabilmente presiedute dal suo beneamato partner del Nazareno, a quel minus habens di Giuseppe Conte.

Alla fine quando il M5S ha detto no alla lista di proscrizione sui nomi da Bonafede a Tridico, dalla Azzolina ad Arcuri, si è opposto alla damnatio memoriae su tutto l’operato precedente, Reddito di cittadinanza in primis, e insieme a tutto il resto della maggioranza ha stoppato l’entrata trionfale di Maria Elena Boschi, Ettore Rosato, Teresa Bellanova in ministeri pesanti, il pokerista distruttore ha rovesciato il tavolo.

Il commento ufficiale dell’artefice della dissoluzione preventiva del Conte-ter, che peraltro ha comportato un’altra dilatazione dei tempi, alla parola fine impressa da Sergio Mattarella è stato naturalmente di grande compostezza e consapevolezza della gravità del momento: “Abbiamo ascoltato le sagge parole del presidente della Repubblica Mattarella: ancora una volta ci riconosciamo nella Sua guida e agiremo di conseguenza”. Dietro le quinte, come riportato nel corso di Tagadà, lo statista – che ha diretto i suoi al tavolo delle consultazioni con l’esploratore incaricato da Mattarella come un navigato pokerista – non avrebbe nascosto tutto il suo divertimento nel “fare politica” con degli incapaci battuti tre a zero.

Il compiacimento di Renzi dal suo punto di vista e prevedibilmente nella sua esondante narrazione è scontato: rivendicherà più o meno esplicitamente come un suo personale successo l’incarico a Mario Draghi che molti di noi ritenevano improbabile, mentre l’ex presidente della Bce è stato tanto pronto ad accettarlo quanto Mattarella a conferirglielo.

Il voto, come aveva costantemente ripetuto Renzi con molta soddisfazione, è per ora fuori dai prossimi scenari e per lui che continua a navigare al di sotto del 3% è di sicuro una buona notizia. Meno, a mio modesto parere e nonostante le rispettabilissime considerazioni che hanno indotto il presidente della Repubblica ad escluderlo, per lo stato di salute complessivo della nostra democrazia in una fin troppo conclamata e lunga crisi di sistema, che forse richiederebbe ruoli ben chiari e distinti per maggioranze (politiche) e opposizioni che possono emergere solo dalle urne.

Al momento è innegabile che lo schema di gioco renziano è risultato vincente almeno nel fare danni in casa altrui: il nemico Conte – che fino alla vigilia dell’affossamento del Conte-ter aveva il 45% di gradimento come presidente del Consiglio, a fronte del 18% di Draghi e del 3% di Cottarelli (rilevazione Piepoli) – è fuori dai giochi e rischia di veder consumato il suo patrimonio di popolarità; il quadro politico rischia di scomporsi totalmente di fronte al governo “istituzionale” ovvero di “larghe intese”; il Pd e il M5S molto probabilmente si posizioneranno in modo differente rispetto all’appello di Mattarella a sostegno di Draghi e con confronti interni non indolori.

Quanto alla rilevanza che la bussola delle manovre renziane era insieme alla bassa ricerca di occupazione di cariche e di accentramento di potere, è abbastanza prevedibile che lui e i suoi cari non abbiano ruoli significativi nel “governo dei migliori” e il sostegno unanime e scontato di Iv a Draghi non gli procurerà nessuna centralità politico-mediatica.

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