Nell'inchiesta della procura di Reggio Calabria le storie di chi, nel settembre 2019, arrivò a Brancaleone per poter studiare in Europa, sfuggire alle imposizioni del partito islamico radicale o, come Brwa, per cercare "una vita migliore" rispetto a quella in Iraq. Il tragitto dalla Turchia a bordo dell'imbarcazione guidata da due scafisti ucraini, ora arrestati. I pm hanno contestato per la prima volta un’associazione a delinquere di trafficanti sulla tratta medio-orientale
Sulla barca a vela che il 20 settembre 2019 arrivò a Brancaleone, in provincia di Reggio Calabria, c’erano 40 migranti tra cui 3 donne e 3 minori. C’era Mohammad, minacciato dai gruppi islamici radicali in Iran, che prima scappò in Turchia per salvare la moglie e i due figli e poi voleva raggiungere, da solo, il fratello a Glasgow. “Attualmente, però, mia moglie e i miei figli sono in Turchia, a Bursa, in quanto non avevo soldi per pagargli il viaggio e perché avevo paura di fargli fare un viaggio in mare” disse alla polizia che lo sentì dopo essere arrivato in Italia. C’era Zana che, in Iran, era “iscritto all’università, facoltà di psicologia” e che è dovuto scappare dal suo Paese. “È pericoloso. – spiegò – Se una persona giovane come me vuole stare tranquillo deve lavorare per il partito islamico radicale”. E poi l’iracheno Nawzad, che nella città di Sulaymaniyya studiava all’università, facoltà di informatica: “Ho lasciato l’Iraq in quanto ero oggetto di vessazioni da parte di un gruppo di persone del mio Paese e temevo che mi potessero uccidere”. Ai poliziotti che lo interrogarono disse di non voler rimanere in Italia: “Vorrei raggiungere l’Inghilterra per continuare gli studi”. E c’era anche Sardan, che prima raggiunse la Turchia “con l’aereo e con il mio passaporto” e poi trovò il numero del trafficante “sul social network Facebook (account Ari Bardashari). Con lui ho concordato il viaggio dalla Turchia verso l’Italia o verso la Grecia per il prezzo di 7mila dollari che ho consegnato in un’agenzia di trasferimento fondi in Iraq prima della partenza”.
Storie diverse ma con un esito comune: chi aveva paura di essere ucciso ed era costretto a subire le imposizioni del partito islamico radicale, chi voleva salvare la famiglia o studiare in Europa e chi semplicemente, come Brwa, ha lasciato l’Iraq “per garantirmi una vita migliore”. Persone, esseri umani, vite che, a un certo punto, nell’estate 2019 il destino ha fatto incrociare a Aksaray, un quartiere di Istanbul. Non era una casualità: “Tutti sanno che in quel quartiere ci sono i trafficanti che propongono di raggiungere l’Europa”. Da questi verbali e grazie alle chat trovate all’interno dei cellulari di due scafisti, la Direzione distrettuale antimafia è riuscita a dimostrare per la prima volta un’associazione a delinquere di trafficanti che organizza i viaggi della speranza sulla tratta medio-orientale.
Con quest’accusa, su richiesta del procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, dall’aggiunto Giuseppe Lombardo e dal sostituto della Dda Sara Amerio, il gip Giovanna Sergi nei giorni scorsi ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. La squadra mobile, guidata da Francesco Rattà, ha arrestato Andrii Bilooka, di 27 anni, e Anatolii Khmilovsky, di 28. Erano stati fermati a Bianco, nella Locride, poche ore dopo lo sbarco dei migranti. In realtà, stando alle indagini della Direzione distrettuale antimafia, non erano semplici scafisti ma solo l’ultimo anello di una più complessa struttura organizzata. Gli scafisti ucraini erano in contatto con i “personaggi strategici del gruppo criminale”. Anche se non sono stati tutti identificati, nell’ordinanza del gip e nella richiesta della Procura compaiono i nomi di questi soggetti: Coba, il “capitano”, Gyla e Serghey. Ognuno aveva un ruolo nella rete “organizzata capillarmente in due continenti”. Una rete che per il pm Amerio “coinvolge associati in vari Paesi”. Anche in Italia. “A Roma un uomo di Serghey ti incontrerà” si legge in un messaggio ricevuto dagli scafisti durante la fase organizzativa del viaggio. Stando all’indagine della Mobile, infatti, prima di essere arrestati Bilooka e Khmilovsky cercavano di raggiungere Roma dove “ad attenderli avrebbero trovato un ‘uomo di Serghey’ che gli avrebbe assicurato evidentemente protezione e il rientro in patria”.
I pm, infatti, hanno ricostruito a ritroso il loro percorso che da Kiev, nell’estate del 2019, li ha portati prima a Batumi, in Georgia, per un corso di addestramento nautico che doveva servirgli ad affrontare le intemperie del Mediterraneo, e poi in Turchia dove, per gli investigatori, “era radicata l’organizzazione criminale di trafficanti con cui i migranti avevano preso contatti per giungere in Italia”. “Adesso stiamo discutendo in merito al Yacht-klub per l’insegnamento”. “E tutto il tempo per cui si tira questo è solo per voi. Per la vostra incolumità”. E ancora: “Per ora che siete qui ci sto rimettendo i soldi, e molti non pochi”. Il 5 agosto “tale Coba” informa i “ragazzi” che “c’è maltempo e la lezione oggi non ci sarà. Il ‘capitano’ l’ha detto”. Sette giorni dopo, il 12 agosto, uno dei due ucraini chiama la madre: “Ho già l’esperienza per camminare al mare aperto”. Bilooka e Khmilovsky discutevano del loro viaggio due mesi prima di salire su quella barca a vela lasciata alla deriva davanti alle coste calabresi. Nel luglio 2019, infatti, una conversazione dimostra la loro consapevolezza in merito al rischio che correvano di essere arrestati: “Se noi partiremo adesso – dicevano – il rischio è sul fatto che a noi ci acchiappano oppure sul fatto che a noi non ci pagheranno?”.
“L’organizzazione del viaggio – scrivono i pm nella richiesta di arresto – avviene mentre i migranti sono ancora nei loro paesi d’origine. I soggetti citati coinvolti sono molteplici, ognuno con un proprio ruolo: chi è il primo contattato, chi si trova ad Istanbul, chi tiene le comunicazione telefoniche, chi si occupa di andare a prendere il migrante da trasportare, chi li conduce nei bed & breakfast o in appartamenti, chi poi li porta con il furgone sulla montagna, chi li tiene come ospiti in montagna foraggiandoli, chi, all’atto della partenza, sequestra ai migranti i loro telefoni cellulari ed i documenti, chi poi conduce l’imbarcazione”. “Un’organizzazione così strutturata – sostengono i pm – non può che valersi dei suoi stessi membri per completare il viaggio in mare, ossia la parte più importante della ‘prestazione’ concordata. Appare chiaro che soltanto un numero di persone di una certa rilevanza ha modo di organizzare un viaggio di tale entità numerica con l’uso di svariati tipo di mezzi di trasporto, di garantire l’approvvigionamento di viveri ed acqua per così tanti giorni e così tante persone. Le diverse nazionalità dei migranti fanno ritenere che l’organizzazione abbia ramificazioni internazionali e che si occupi di effettuare la concentrazione dei soggetti in un solo luogo di partenza, raggiunto un numero ritenuto idoneo ed economicamente conveniente, per farli partire da lì alla volta dell’Italia”.
Foto d’archivio