L'INTERVISTA - L'ex presidente Istat e ministro del Lavoro, oggi portavoce dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile e tra i papabili ad entrare in un governo Draghi: "Urgente definire target e obiettivi quantificabili. E creare una struttura per la programmazione strategica, esigenza che avremo anche dopo la fine del Next Generation Eu". I futuri aiuti alle attività danneggiate dal Covid devono anche accompagnare la riconversione, per "aumentare la resilienza a futuri choc". Il cashback? "Valutare costi e benefici"
Il prossimo governo non dovrà riscrivere il Recovery plan ma integrarne le lacune, anche se in quello preparato dal Conte 2 “ci sono molti elementi importanti e innovativi che vanno nella direzione delle priorità europee e delle necessità dell’Italia”. Allo stesso modo il reddito di cittadinanza “non c’è dubbio che serva in questa situazione di crisi”: semmai va rafforzato collegandolo alla riforma degli ammortizzatori e delle politiche attive del lavoro. E varando subito per decreto la banca dati per incrociare domanda e offerta. Sui prossimi ristori alle imprese sì alla linea dettata dal Gruppo dei 30 nel documento cofirmato dall’ex presidente della Bce. Quindi aiuti mirati e incentivi alla riconversione per chi dovrà cambiare attività: “Devono aumentare la resilienza del sistema economico a futuri choc”. A Enrico Giovannini “fischiano le orecchie”: il suo nome è il trait d’union di ogni lista di papabili componenti di un governo Draghi. In attesa di evoluzioni, l’ex presidente Istat e ministro del Lavoro è impegnato come sempre nelle vesti di portavoce dell’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile che ha appena compiuto cinque anni: ieri è stato audito dalle commissioni Bilancio e Ambiente sul Piano di ripresa e resilienza, mercoledì prossimo incontrerà i Fridays for future e altre organizzazioni di giovani per discutere delle loro proposte su come usare il Next Generation Eu.
Professore, dunque il Recovery non va riscritto da zero come sostiene qualcuno?
Mi sembra decisamente eccessivo. Certo va reso più coerente, perché questo è uno dei punti chiave di tutta l’impostazione del Next Generation Eu: bisogna essere sicuri di non smontare con una mano quel che si fa con l’altra. È il motivo per cui le linee guida Ue chiedono di integrarlo con le proposte da finanziare con gli altri fondi Ue, cosa che in parte è stata fatta, ma anche con quelli nazionali: non possiamo mettere 80 miliardi sulla transizione ecologica e poi avere nel bilancio dello Stato 19 miliardi l’anno di Sussidi dannosi per l’ambiente. Poi vanno definiti target e obiettivi quantificati precisamente: senza non è possibile controllare se ci si sta avvicinando ai risultati attesi. E per ricevere le risorse europee occorre portare a casa risultati in termini di obiettivi finali, non basta aver speso. Purtroppo questo non è nella cultura della pa italiana, ma grazie a Istat e agli altri enti del sistema statistico abbiamo molti dati che in poche settimane possono essere usati per costruire gli obiettivi.
Sul fronte della transizione green manca qualcosa?
Procedure autorizzative chiare, senza le quali i capitali privati che sono indispensabili per la decarbonizzazione non arriveranno. E ci servono: i 220 miliardi del Next Generation integrato con altri fondi Ue o pubblici non bastano per raggiungere quell’obiettivo. Più in generale, serve un’indicazione precisa di dove vogliamo essere nel 2030. Una debolezza enorme, segnalata nel piano stesso, è il fatto che non abbiamo un Piano nazionale energia e clima coerente con l’obiettivo di tagliare le emissioni del 55% al 2030, come prevede l’intesa europea di dicembre. Dobbiamo correre anche su quello.
Altre debolezze?
Non si cita nemmeno Garanzia giovani, uno dei programmi su cui le linee guida Ue chiedono di puntare.
Dopo aver fissato gli obiettivi bisogna decidere chi controllerà che vengano raggiunti. La governance va ancora definita, visto che la task force proposta da Conte è stata cancellata.
Serve una forte struttura di coordinamento che faccia anche un monitoraggio ferreo dei singoli step. Non è così complicato, si può fare al ministero dell’Economia o alla presidenza del Consiglio, ma spetta al prossimo governo proporre una formula. La Spagna per esempio ha optato per un “Comitato interministeriale per la ripresa, la trasformazione e la resilienza” e noi, volendo, una struttura molto simile ce l’abbiamo: il Cipe che dal’1 gennaio, su proposta dell’ASviS, ha cambiato nome in Comitato interministeriale per la Programmazione Economica e lo Sviluppo Sostenibile. In ogni caso dobbiamo anche creare il prima possibile una struttura dedicata alla programmazione strategica e agli studi sul futuro – ci sono in tutto il mondo, dall’Inghilterra alla Francia – che supporti la presidenza del Consiglio. La programmazione strategica deve diventare una pratica corrente, necessaria non solo per quando il Next Generation sarà finito, ma anche adesso per affrontare temi che vanno dalla crisi climatica all’innovazione tecnologica alla cybersicurezza. Infine, bisogna definire il coinvolgimento degli enti territoriali, che hanno competenze su molti degli interventi previsti. Dobbiamo evitare che si finisca ai ricorsi davanti alla Consulta.
Veniamo alle altre priorità del prossimo governo. Il decreto Ristori 5 è rimasto ostaggio della crisi politica. I nuovi aiuti dovranno essere più mirati?
La logica deve essere quella della “resilienza”, che non a caso è nel nome del piano europeo per uscire dalla crisi causata dal Covid. Bisogna proteggere chi non ha altri ammortizzatori ma anche accompagnare la trasformazione, quando necessario. Per esempio i ristoratori dei centri storici hanno di sicuro avuto danni enormi ma ci dobbiamo chiedere se sia il caso di sostenerli e basta, o se non convenga aiutarli a aiutarli a trasferirsi in zone più periferiche, visto che con lo smart working anche le pause pranzo si “spostano” dai centri direzionali ai quartieri in cui la gente vive. Lo stesso, del resto, vale per le tante persone che perderanno il posto di lavoro e dovranno reinventarsi.
Di politiche attive del lavoro si parla da 20 anni ma la riforma definitiva per renderle efficienti non arriva mai.
Nel decreto 76 del 2013, varato quando ero ministro, avevamo previsto una banca dati unica per le politiche attive e passive: lo studente avrebbe dovuto essere iscritto prima ancora di entrare sul mercato. In seguito sarebbero stati aggiunti tutti i dati successivi, dalle competenze ai passaggi lavorativi ai sussidi ricevuti. Era previsto anche un monitoraggio bimestrale delle competenze degli uffici del lavoro… Poi il progetto non è stato realizzato. Ma non è affatto così difficile, serve la volontà politica: visto che il lavoro è un’emergenza, l’allineamento delle banche dati regionali si può fare per decreto, come si è fatto per i dati sanitari. A quel punto finalmente il centro per l’impiego di Caltanissetta saprà se e dove c’è qualcuno, fuori dalla Sicilia, che cerca una persona con le caratteristiche di chi vive in quella provincia. E’ vero che le competenze sulle politiche attive e la formazione sono delle Regioni, ma gli enti possono essere convinti a collaborare – come facemmo nel 2014 con la Garanzia Giovani (per la quale la banca dati è nazionale) – se vogliono avere i fondi Ue.
Il reddito di cittadinanza va preservato?
Durante il governo Letta noi facemmo la prima misura anti povertà, il Sostegno di inclusione attiva, poi sostituito dal Rei e dal Rdc. Non c’è dubbio che in una situazione come questa serve. In aprile con il Forum disuguaglianze di Fabrizio Barca e Cristiano Gori dell’università di Trento siamo stati i primi a proporre un ulteriore aiuto, il Reddito di emergenza, per coprire anche le persone senza altri ammortizzatori sociali. Come per ogni politica, è sicuramente opportuna una valutazione sull’efficacia per poi fare gli aggiustamenti necessari, nell’ambito di una riforma degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive. Il governo Conte 2 aveva già avviato un lavoro preparatorio, ma non lo conosco.
Lei guida la commissione che scrive ogni anno la Relazione sull’economia non osservata e l’evasione fiscale. Il cashback in chiave antievasione è utile?
La buona notizia, come segnalato nell’ultima relazione, è che l’informatizzazione delle transazioni con la fatturazione elettronica sta dando risultati importanti in termini di gettito Iva. Nel frattempo la pandemia di per sé ha aumentato il ricorso alla moneta elettronica. Tutte le misure che aiutano in quella direzione possono essere utili, ma naturalmente vanno verificati costi e benefici. Grazie ai dati che riceve in tempo reale l’Agenzia delle entrate sarà sicuramente in grado di valutare l’effetto del cashback in termini di potenziale emersione. La valutazione va fatta con quei dati in mano.