Il film delle consultazioni per il nuovo governo Draghi, prodotto dalla premiata ditta Mattarella, mette in scena un singolare remake dell’estetica del silenzio primi anni sessanta, che caratterizza l’opera di un maestro del cinema italiano quale Michelangelo Antonioni (la celebre trilogia dell’incomunicabilità: La Notte, L’Avventura, L’Eclisse). Ossia il calendario di incontri tra personaggi che non hanno nulla da dire e – tantomeno – da dirsi. L’apoteosi dell’afasia.
Su cosa pensi il presidente incaricato Mario Draghi riguardo alle questioni che hanno cortocircuitato il Conte 2 (Mes, ponte di Messina, prescrizione, un ministero per la Boschi, ristori, la messa a disposizione da parte di Carlo Calenda delle proprie competenze manageriali apprese come portaborse di Luca Cordero di Montezemolo, banchi scolastici con o senza ruote, vaccinazioni, chi scappa con la cassa del Next Generation, ecc…) aleggia il più assoluto mistero. A fronte di questo ceto politico privo di qualsivoglia idea sul da farsi, al netto dei proclami e della cultura dei preliminari.
Dunque, colloqui dall’andamento facilmente prevedibile: un signore in grisaglia scura e profilo da uccello notturno che scruta allibito il caravanserraglio di interlocutori altrettanto allibiti, nel comune spiare il quadrante degli orologi in attesa che termini il tempo canonico dell’incontro. Anche se non è difficile presumere cosa i vari attori vogliano davvero: tirare a campare, i rappresentanti di partito; tutelare la propria immagine di Super-Mario, l’anfitrione.
O meglio, non riguardo a inesistenti ricette, bensì in materia di orientamenti generali, il reale pensiero dell’incaricato è desumibile da almeno tre indizi. E – come diceva una certa signora – “tre indizi fanno una prova”: sino a ieri incendiaria, oggi la Lega è pronta a dare il proprio appoggio al tentativo, i barometri del clima padronale in piena risalita, il coro all’unisono della stampa di Palazzo, inneggiante al nuovo arrivo in scena. Le presunte “grandi firme” alla Concita De Gregorio o Massimo Giannini, al tempo in cui le grandi firme sono sparite: le Camilla Cederna e i Giorgio Bocca che osavano andare controcorrente anche rispetto ai propri editori.
Ora ci si entusiasma se finalmente torna in sella un membro a pieno titolo del country club dell’establishment. Il cui cuore batte forte nelle vicinanze della ricchezza: l’ennesimo banchiere (Bankitalia, Goldman Sachs, BCE) chiamato a svolgere quei compiti di aggiustaggio dei cui costi nessuno intendeva farsi carico. Omaggiato con il titolo di “personalità d’alto profilo”. E che vuol dire? Benedetto Croce era certamente uno dei filosofi di maggiore rilevanza a livello mondiale e Umberto Eco godeva di un prestigio da semiologo che travalicava i confini nazionali. Mai nessuno avrebbe pensato di affidare loro la guida di un’impresa, né – tantomeno – di una compagine governativa. Nonostante il conclamato “alto profilo”.
Ora Matteo Renzi (quarto indizio paraculo) fa il fenomeno dichiarando che Draghi è il suo preferito quale gestore dei miliardi che dovrebbero arrivare da Bruxelles. In base a quale competenza di politica industriale, di governo dello sviluppo, di pianificazione strategica? Che ne sa di economia materiale il solito finanziere che ha sempre trafficato con i flussi virtuali, in quanto specializzato nella produzione di denaro a mezzo denaro? Ossia, l’apprezzato membro della categoria rea di aver perseguito la tracimazione egemonica della finanza dalle funzioni ancillari al servizio dell’investimento d’impresa; avvenuta nei quarant’anni del saccheggio NeoLib.
Da tempo oggetto dell’indignazione generale. I cui spaventosi guasti marcano le priorità di ogni politica che non sia soltanto un arrocco sul privilegio. Ma che – come ricordava Barbara Spinelli – sembra molto difficile attendersi da chi, nella lettera-diktat del 2011 firmata con il collega euro-banchiere Jean Claude Trichet, pretendeva di imporre all’Italia la ricetta di privatizzare a oltranza e svendere lo Stato.