“E’ la longa manus del sistema finanziario nelle istituzioni”; “Farà scomparire il reddito di cittadinanza”; “Ci sarà una patrimoniale appena si insedierà”. Manca solo “si mangia i bambini (come i comunisti)” e il catalogo dei pre-giudizi sull’operato futuro di Mario Draghi è completo. Senza che lo stesso abbia mai fatto alcuna dichiarazione al riguardo o abbia mai detto qualcosa del genere in passato.
Non mettiamo in discussione anche Draghi, prima ancora che abbia tracciato il programma di governo. Per cortesia. Si tratta di una delle figure di maggior spessore professionale del nostro paese. E l’unico, in questo momento, con le competenze necessarie per gestire alcuni passaggi fondamentali, in primis il Recovery Plan, per il nostro futuro.
L’alternativa, l’ipotesi delle elezioni anticipate, porterebbe il paese nelle mani della destra. E non è sicuramente un peccato. Lo è invece, peccato mortale, confrontare l’attuale presidente incaricato, che gode della stima e della benevolentia dei mercati finanziari e della comunità internazionale, con il potenziale di impopolarità (se non disprezzo) di un Salvini o di una Meloni a Palazzo Chigi. Per non parlare del confronto (di capacità gestionali e competenze economico-finanziarie) con “quelli che volevano cambiare il mondo” con lauree non specialistiche (quando posseduta), senza conoscere una parola di inglese: lo hanno dimostrato anche loro nascondendosi dietro la subdola “ragion di Stato”, attaccati solo alla poltrona.
Sì, è vero qualche neo nel suo curriculum vitae (soprattutto l’autorizzazione come governatore della Bce all’acquisto di Antonveneta da parte del Mps) ci sta, ma chi può esimersi dallo scagliare la prima pietra? In questo momento sarei lontano dalla narrazione populista del “servitore dello Stato” o “dell’infiltrato dei poteri forti della grande finanza internazionale”. Mi atterrei ai fatti.
Forse non tutti, soprattutto tra quelli contrari alla sua nomina, ricordano che nella sua lettera al Financial Times di un anno fa l’ex governatore disse che il futuro dell’Europa (e quindi dell’Italia) passava attraverso tre azioni elementari:
1. L’Europa deve essere unita e solidale con un’identità fiscale tanto forte da bilanciare quella monetaria. In altri termini ridurre all’osso la pressione fiscale e niente più egoismi: non ci possiamo più permettere le spinte nazionalistiche di questi ultimi decenni.
2. Gli Stati sovrani non devono più correre dietro ai vincoli di bilancio. Siamo in guerra e oggi la priorità è sopravvivere attraverso la ripresa economica. Quindi basta masturbazioni mentali sul rapporto deficit/Pil e il livello di indebitamento. Stampiamo moneta da sparare con l’elicottero.
3. Dare direttamente alle imprese le risorse necessarie per ripartire. In altri termini prestare danaro a tasso zero direttamente alle imprese regolando con attenzione l’intermediazione delle banche ed evitando gli errori fatti con il decreto liquidità. Draghi, che conosce molto bene quel “mondo”, ha capito perfettamente che se il bazooka passa tra le mani del sistema bancario diventa una pistola ad acqua.
Ciò non significa che il governo presterà direttamente alle imprese. Non può farlo per motivi pratici, per carenza di capacità strutturali. Quello che, però, il governo può e deve fare è pressare le banche, fornendo loro la garanzia e la certezza di finanziamenti a basso costo, obbligandole a prestarli ai clienti.
Al momento sappiamo solo questo. Il resto è fuffa propagandistica.