Sia benedetta la collana Microgrammi di Adelphi. Volumetti mignon non oltre le cento pagine, piccoli babà con panna montata che provocano un leggero e permanente sussulto nel lettore. Ne abbiamo acciuffati una manciata tra cui L’uomo elefante di Frederick Treves. David Lynch ci scuserà ma come si dice spesso per darsi arie: era meglio il libro. Il dottor Treves, baronetto ed eminente chirurgo del regno, racconta in prima persona l’incontro fortuito, il parapiglia generale, l’attrazione singolare e sincera verso Joseph Merrick, l’uomo deforme, con un braccio, il capo e le gambe rigonfie con un elefante, adoperato come freak da un circo londinese, migrato in Europa, deriso, bastonato, umiliato, lasciato alla fame, infine ritrovato morente in un angolo di una stazione. Treves lo porta con sé, gli dà finalmente una stanza dove vivere, lo inserisce socialmente tra dame e signori generosi che superano l’orrore della vista per concedergli il beneficio della vita. Cronaca cruda, senza sconti, nei momenti del bene e in quelli del male, Treves sembra come dettare spasmodico, attento, vibrante un articolo a qualche rivista d’inizio secolo. La rinascita di Merrick è forse la parte più sentita, stupita, luminosa, commovente, ma soprattutto rispettosa della diversità fisica e psicologica dello sconosciuto. “Guardava il mondo come un bambino – ma un bambino con i sentimenti tempestosi di un uomo”. Voto (senza clamore alcuno): 8