La fine disastrosa della sua esperienza a Marsiglia è solo l'ennesimo fallimento di una carriera segnata da un inizio sfolgorante e da una prosecuzione fallimentare. Dai trionfi col Porto alle tappe in giro per la periferia del calcio, storia di un tecnico sopravvalutato dall'ego smisurato
Esistono due versioni di questa storia. La prima è quella che ha raccontato il protagonista. Perché martedì scorso André Villas Boas si è presentato davanti alle telecamere e la lanciato il suo personalissimo j’accuse. D’altronde l’aveva detto chiaramente. Lui Olivier Ntcham non lo voleva. Per nessun motivo al mondo. Così, quando scrollando le notizie sul suo smartphone se l’è ritrovato fra i nuovi acquisti, il portoghese ha sentito la rabbia gonfiarsi fra le pareti dello stomaco. “Non si può toccare la mia professionalità – ha detto ai giornalisti increduli – ho presentato le mie dimissioni“. La seconda versione è quella dell’Olympique Marsiglia, un club borghese che ora rischia di diventare davvero piccolo piccolo.
La società ha affermato che le dichiarazioni di Villas Boas sono solo l’ultimo episodio di una “serie di azioni e atteggiamenti che danneggiano gravemente il Marsiglia e i suoi dipendenti, che lo difendono quotidianamente”. Poi ha dichiarato di aver sospeso l’allenatore. E di essere pronta a fargli causa. Sapere chi dei due ha davvero lasciato l’altro è irrilevante. Quello che conta sono i cocci rimasti sul pavimento. Frammenti che raccontano di una classifica inquietante, con un nono posto lontano quasi 20 punti dalla vetta, e di un girone di Champions League disputato da comparsa, con un en plein al contrario fatto di 4 sconfitte (e zero gol segnati) nelle prime 4 giornate. Un’umiliazione che Villas Boas aveva commentato con un lapidario: “Stiamo facendo cacare”, salvo poi sottolineare implicitamente i suoi meriti. Il Marsiglia stava facendo schifo, certo, ma aveva avuto la possibilità di fare schifo in Europa perché lui l’aveva guidato fino al secondo posto nella precedente Ligue 1. Un ragionamento cervellotico che non aveva fatto esattamente breccia nel cuore dei tifosi. Anzi, il loro disappunto è cresciuto settimana dopo settimana.
Fino a qualche giorno fa, quando hanno deciso di passare all’azione. Centinaia di supporter dell’OM hanno circondato il centro d’allenamento della squadra e poi l’hanno espugnato neanche si trattasse della Bastiglia. Petardi, insulti, cori contro società, calciatori e allenatore. E anche tre alberi dati alle fiamme. Un disastro collettivo che non può coprire un disastro personale. Perché il presente di Villas Boas ha tinte molto più cupe rispetto alle sue premesse luminose. Le cifre parlano chiaro. Sette club diversi in undici anni di carriera. E la piccola impresa dell’Europa League conquistata con il Porto è stata abbondantemente annacquata dall’evidenza di essere riuscito a mettere trofei in bacheca solo alla periferia del calcio, in Portogallo e Russia. E sempre stando ben saldo sulla schiena del pesce più grande dello stagno piccolo. Fare una tara è difficile. Eppure quello che era stato etichettato come il nuovo Mourinho si è ritrovato ostaggio di quel paragone, vittima della precocità del suo stesso talento. Le storie sui suoi inizi o trasformano in un santone, in un rabdomante del talento.
André è un adolescente di origini nobili e dal carattere riservato che viene illuminato da un’idea. L’ha elaborata durante una lunga sessione di gioco a Championship Manager. Secondo lui Sir Bobby Robson, allora allenatore del Porto, stava sbagliando a impiegare Domingos Paciencia, attaccante dallo score altalenante capace di passare da 25 gol stagionali a 2 nell’arco di una stagione. Così Villas Boas scrive le sue considerazioni su un pezzo di carta e le infila sotto la porta del mister. Una trovata che cammina sospesa fra la genialità e la ciarlataneria. In quel momento Robson opta per la prima ipotesi. E chiede al giovane André di raccogliere le statistiche dei suoi giocatori. Poi lo integra in pianta stabile nel suo staff. Il primo vero incarico arriva a 23 anni. La Federazione delle Isole Vergini gli offre la panchina della Nazionale. Non sarà un’esperienza indimenticabile. Alla sua seconda partita Villas Boas perde 0-9 contro Bermuda. La Federazione lo ringrazia per il lavoro svolto, gli augura buona fortuna, lo caccia. AVB ricomincia dal Porto.
Prima dalle giovanili, poi entra nello staff di Mourinho. Fra i due la sintonia è totale. José non è ancora lo Special One, ma ha un’intuizione. Affida ad André il compito di redigere dei rapporti dettagliatissimi sugli avversari. E Villas Boas esegue alla perfezione. I due lavorano insieme al Porto, al Chelsea, all’Inter. Il primo twist arriva nel 2009. L’Academica Coimbra boccheggia all’ultimo posto in classifica. E decide di affidargli la squadra. Tanto peggio di così non poteva certo andare. AVB saluta Mourinho e si siede su quella panchina sgangherata. Grazie al suo 4-3-3 offensivo ma bilanciato i bianconeri non solo si salvano, ma arrivano addirittura decimi. Il cordone ombelicale col Porto non è stato ancora reciso. Così a fine anno sale alla guida dei dragoni. André cannibalizza gli avversari. Vince 4 trofei in un anno. Il successo più clamoroso è l’Europa League. AVB batte in finale il Braga, allenato proprio da Domingos Paciencia, e poi si presenta davanti alle telecamere. Chiede scusa ai tifosi per il gioco non particolarmente spumeggiante. Poi ringrazia tutti. Anche Guardiola, anche Mourinho. Il nome più importante che pronuncia quella sera è quello di Robson.
L’inglese è il suo faro. Ma anche la carta migliore per smarcarsi dal paragone con Mou. “Mi rispecchio più nell’immagine di Robson – dice – come lui ho antenati inglesi, il nasone e una passione per il vino rosso“. Un concetto che tende a ribadire anche con un’altra formula: “Non sono il clone di Mourinho”. In quel momento AVB è l’allenatore più desiderato d’Europa. Roma, Juventus e Inter farebbero di tutto per averlo. Il Chelsea si limita a pagare i 15 milioni di euro della sua clausola rescissoria. Villas Boas diventa lo Special Two. “Non aspettatevi risultati da un uomo solo” dice durante la presentazione. Sembra una rivoluzione. Sarà un fallimento. A dicembre la situazione è già disperata. I tifosi avversari danno della capra a Villas Boas. Quelli del Chelsea si limitano a scandire il nome di Mourinho. Lampard trova meno spazio, Drogba viene rottamato con la frase: “Non sei neanche metà del giocatore che eri lo scorso anno”. La sfida di Champions con il Valencia segna il punto più basso. Anelka, uno degli epurati di lusso di AVB, si vede addirittura revocare il pass per parcheggiare all’interno di Stamford Bridge.
Così quando torna a prendere la sua auto si trova una multa sul parabrezza e una ganascia intorno alla ruota. Il Guardian sottolinea come l’allenatore non si assuma mai la responsabilità di una sconfitta, ma sia sempre intento a incolpare gli altri. Dopo l’ennesimo risultato deludente Gary Neville dice a Villas Boas che con quelle uscite spericolate palla al piede dalla difesa David Luiz sembra pilotato da un ragazzino di 10 anni alla playstation. André va su tutte le furie. A marzo il Chelsea perde 1-0 in casa del WBA. Villas Boas è esonerato. Al suo posto arriva Di Matteo. L’ex centrocampista reintegra gli epurati in un sistema di gioco preistorico. E vince la Champions. Un risultato casuale e grottesco che amplifica il fallimento di Villas Boas. Da quel momento per il portoghese si apre una nuova era. Un anno e mezzo al Tottenham prima di essere esonerato, i successi con lo Zenit, anche se tutti, in fin dei conti, hanno vinto con lo Zenit, lo Shangai, il Marsiglia. In mezzo una partecipazione al Rally Dakar, nuova veste della Parigi Dakar. L’avventura di André dura solo quattro tappe. Poi deve abbandonare per un problema alla schiena. “Da noi i calciatori si allenano troppo poco, arrivano al campo alle 9.30 e vanno via dopo tre ore. Io ho bisogno di più tempo per poter dare il mio contributo“, si è fatto scappare qualche tempo fa. Eppure era stato chiaro: mai aspettarsi qualcosa da un solo uomo. Un concetto che sembra tornato d’attualità martedì scorso.