Si scrive Biden, ma si legge Trump. Almeno sul fronte della politica commerciale interna. Con un ordine esecutivo che mira a ridurre le forniture estere negli appalti federali, gli appelli a comprare americano e la nomina di Katherine Tai – critica della Cina – come nuova Rappresentante per il Commercio, il nuovo inquilino della Casa Bianca ha mostrato per il momento di non discostarsi dalla strategia delineata dal suo predecessore sullo scacchiere del commercio internazionale. Ma allo stesso tempo, con l’endorsement alla poltrona di direttore generale dell’Organizzazione
mondiale del commercio (Wto) dell’ex ministro delle Finanze della Nigeria, Ngozi Okonjo-Iweala, ha lasciato intravedere una decisa inversione di rotta per quanto concerne il ruolo degli Usa nello scacchiere del commercio internazionale: il Wto, infatti, negli ultimi anni aveva subìto le rappresaglie di Washington, che ne avevano paralizzato le attività. Stop all’isolazionismo e rotta, invece, verso un inedito protezionismo multilaterale: ecco la strada che Joe Biden sta delineando per gli Usa del prossimo quadriennio.
Prima l’America – Buy American, Make it in America, Innovate in America, Invest in all of America, Stand up for America, Supply America: tra i punti programmatici di cui è costellato il manifesto di Joe Biden potrebbe non sfigurare quell’ “America First” che con Donald Trump ha vissuto una nuova epoca d’oro, e che secondo Biden non è stato rispecchiato dai fatti. Gli appalti governativi – che valgono quasi 600 miliardi di dollari all’anno – assegnati a imprese estere sono cresciuti del 30% negli ultimi quattro anni, ha denunciato in campagna elettorale l’esponente dem. Nelle intenzioni del neopresidente c’è invece un piano di investimenti da 400 miliardi di dollari sugli approvvigionamenti e di 300 miliardi in ricerca e sviluppo e nuove tecnologie, che dovranno alimentare esclusivamente l’economia a stelle e strisce.
Propositi che hanno già iniziato a prendere forma con l’ordine esecutivo intitolato “Ensuring the future is made in all of America by all of America’s workers”, con il quale Biden intende rendere più difficile per le agenzie governative acquistare prodotti stranieri, aumentare la percentuale di beni locali e utilizzare parametri come la creazione di posti di lavoro nella definizione di ciò che è “made in Usa”. Il nuovo indirizzo mira anche a garantire che le piccole e medie imprese possano avere un migliore accesso alle informazioni necessarie per presentare offerte per i contratti governativi. “Nell’ambito del piano di ripresa Build Back Better, investiremo centinaia di miliardi di dollari nell’acquisto di prodotti e materiali americani per modernizzare la nostra infrastruttura e la nostra forza competitiva aumenterà in un mondo competitivo”, sono state le parole di Biden, che non si nasconde e intende rispondere in questo modo al piano Made in China 2025, promosso da Pechino negli ultimi anni.
Le sfide alla Cina – La tregua firmata un anno fa tra Usa e Cina, con l’accordo economico e commerciale “di fase 1” che lasciava i dazi invariati e richiedeva alla Cina di acquistare 200 miliardi di dollari di prodotti specifici entro 2 anni, non ha avuto gli effetti sperati. Il surplus commerciale della Cina lo scorso anno, invece di ridursi, è addirittura aumentato del 7,1%, raggiungendo i 317 miliardi di dollari. “Dobbiamo affrontare la sempre più ardua concorrenza di una Cina ambiziosa e in crescita”, ha affermato Katherine Tai, nuova Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti d’America, nominata dall’amministrazione Biden e in attesa del voto di conferma del Senato. Di origini asiatiche, fluente in mandarino e già chief counsel per il commercio con la Cina, affrontando le controversie di Washington contro Pechino presso il Wto, Tai prenderà il posto di Robert Lighthizer, ma con ogni probabilità non ammorbidirà le posizioni verso il Dragone, “la cui economia è diretta da pianificatori centrali che non sono soggetti alle pressioni del pluralismo politico, delle elezioni democratiche o dell’opinione popolare”, ha detto in una recente dichiarazione. Un orientamento confermato anche da chi li conosce bene. “Entrambi hanno anche una lunga storia nell’affrontare le pratiche sleali della Cina, la questione commerciale più urgente del nostro tempo”, ha affermato a Cnbc l’ex negoziatore commerciale della Casa Bianca, Clete Willems. “Dove è più probabile che l’approccio di Katherine differisca è su come usare il sistema e le alleanze del Wto per fare pressione sulla Cina affinché cambi comportamento”.
La competizione globale – A partire da marzo 2018, Trump aveva introdotto dazi su quasi 50 miliardi di dollari di importazioni di acciaio e alluminio, con l’obiettivo di mettere un freno all’ingresso dei metalli cinesi, prodotti da aziende statali e largamente sovvenzionate, e quasi raddoppiati negli ultimi dieci anni nonostante l’apertura di diversi fascicoli in sede Wto e Ocse durante la presidenza Obama. “Il presidente Biden è stato a lungo un sostenitore della liberalizzazione del commercio: come vicepresidente ha sostenuto il Tpp, e come senatore ha votato per il Nafta e l’ingresso della Cina nel Wto. Tuttavia, è evidente l’assenza di qualsiasi cambiamento alla notevolmente aggressiva politica commerciale trumpiana nel suo pacchetto iniziale di misure”, ha dichiarato Axel Eggert, direttore generale di Eurofer, associazione europea dei produttori di acciaio. Accantonate le controversie davanti agli organismi sovranazionali, e ostacolando di fatto l’attività del Wto, Trump aveva infatti promosso un protezionismo indistinto che ha finito per penalizzare anche le importazioni dal Canada, dal Giappone e dall’Unione Europea, utilizzando poteri di emergenza e contrassegnando le importazioni come una minaccia alla sicurezza nazionale.
Mossa che ha generato ulteriori ritorsioni da parte di Bruxelles, e oggi accuse anche dalla Londra post Brexit. A metà gennaio sono entrate in vigore nuove tariffe punitive autorizzate dal Wto sui prodotti europei per un totale di 7,5 miliardi di dollari, una decisione da record nel quadro dell’annosa disputa fra Boeing e Airbus sugli aiuti di stato. La stessa organizzazione mondiale per il commercio ha autorizzato la Ue a imporre dazi punitivi su merci Usa per 4 miliardi di dollari, in vigore dal prossimo marzo. In una nota di inizio dicembre il Regno Unito preannunciava il suo “approccio indipendente” alla querelle tra i due litiganti atlantici, sottolineando che le tariffe americane “sono ingiustificate secondo le regole Wto e colpiscono in maniera sleale i produttori britannici di acciaio e alluminio”.
Il nodo Wto – Non è durato a lungo, invece, l’attendismo della nuova presidenza al fine di ristabilire il ruolo degli Usa nello scacchiere internazionale. Tra i dossier sul tavolo dell’asse Biden-Tai c’è inevitabilmente proprio quello del Wto, l’organizzazione mondiale del commercio di fatto tenuta in scacco dagli Usa attraverso i veti posti sia sulla nomina del nuovo direttore generale, sia sul rinnovamento dell’organo di risoluzione delle controversie, il Trade Appellate Body. Dopo le dimissioni nella scorsa estate di Roberto Azevedo, ingaggiato come chief corporate affairs officer dal colosso delle bollicine PepsiCo, erano in corsa per lo scranno più alto due candidate: Yoo Myung-hee, attuale ministro del Commercio della Corea del Sud e Ngozi Okonjo-Iweala, ex ministro delle Finanze della Nigeria, in vantaggio sulla rivale ma fermata per mesi dall’ostruzionismo trumpiano prima del via libera arrivato pochi giorni fa dalla nuova amministrazione.
Un atteggiamento che l’organizzazione ginevrina ha subìto anche sul rinnovamento dell’Appellate Body, il collegio giudicante che dal dicembre 2019, dunque poco dopo le ultime decisioni sulla contesa Airbus/Boeing, ha avuto in carica un solo componente su sette, con l’impossibilità di ricevere nuovi casi prima della nomina degli altri membri, e che dallo scorso 30 novembre risulta completamente sguarnito con la fine dell’ultimo mandato dell’ultimo componente. Il primo veto risale al 2016, quando l’amministrazione Obama si oppose alla conferma nel panel del sudcoreano Seung Wha Chang. Gli Usa manifestano da tempo critiche all’operato dell’organizzazione, un’onda cavalcata poi da Trump per difendere la causa di Washington in maniera muscolare. Sebbene questo collegio sia di secondo grado, la sua paralisi inficia ogni decisione di primo grado, perché l’impugnazione di qualsiasi sentenza ha l’effetto di trascinare ogni processo nelle sabbie mobili, senza arrivare a una risoluzione legale. Ed è infatti quanto avvenuto lo scorso settembre, quando un panel Wto ha determinato per la prima volta l’illegalità delle tariffe Usa su beni di importazione dalla Cina per oltre 200 miliardi di dollari. Una decisione che in teoria avrebbe dovuto permettere a Pechino di imporre a sua volta tariffe di ritorsione sui prodotti Usa, ma che non ha avuto effetti concreti proprio a causa della mancanza di una Corte d’appello funzionante.