Il rinvio delle prestazioni sanitarie è stato di quasi due mesi. Nel 68% dei casi l’appuntamento è stato rimandato sine die. Il primato spetta a gastroenterologia e urologia. Le liste d'attesa hanno accumulato ritardi strutturali e per smaltirle saranno necessarie risorse significative. Nei piani di Speranza c'erano 61mila assunzioni per colmare il gap degli ultimi 10 anni
Tra marzo e dicembre dell’anno scorso 27,9 milioni di italiani che avevano in programma una visita, esame o una operazione in una struttura sanitaria, hanno subito uno o più rinvii. Di questi, circa 13 milioni, si sono invece visti annullare del tutto una o più visite, esami o interventi. “Vi sono sicuramente ripercussioni sullo stato di salute. Il sistema sanitario cerca di trattare adeguatamente i casi urgenti o più gravi” dice Paolo Vineis vicepresidente del Consiglio Superiore di Sanità. Lo scienziato, la mente che analizza curve, andamenti e picchi dell’infezione come epidemiologo, fa riferimento per esempio a diagnosi tardive, per esempio quelle relative ai tumori. A causa dell’emergenza sanitaria gli italiani hanno dovuto fare i conti con rinvii che, dati alla mano, hanno riguardato praticamente tutte le specialità; il primato spetta a gastroenterologia e urologia (rispettivamente con l’81,2% e il 75% di pazienti che hanno subito ritardi o annullamenti su visite, esami od operazioni già programmate), anche patologie molto gravi non sono state esenti da questo fenomeno e, ad esempio, hanno subito ritardi o annullamenti il 61,1% dei pazienti cardiologici e appunto il 47,2% di quelli oncologici.
Secondo il Report Sanità elaborato dalle società di ricerca mUp Research e Norstat (su dati di comparazione assicurativa, commissionati da facile.it) si legge che “mediamente” il rinvio delle prestazioni sanitarie è stato di quasi due mesi (53 giorni), ma il dato ancor più importante è che nel 68% dei casi l’appuntamento è stato rimandato sine die. Le liste d’attesa hanno accumulato ritardi strutturali, per smaltirle saranno necessarie risorse significative, “un esempio tra tutti: per recuperare il volume di attività perso nel 2020 in Piemonte per il solo screening del cancro della mammella (circa 109mila mammografie) sarebbe necessario aumentare del 45% le attività nel 2021 rispetto a quelle del 2019 – continua Vineis – questo incremento è quello che permetterebbe il ritorno ad una situazione pre-covid ad inizio 2022. Si può capire che è un obiettivo molto ambizioso. In un sistema sanitario già altamente provato dall’epidemia temo che ci vorrà molto tempo per recuperare. Non dimentichiamo che dal 2009 al 2017 il Servizio Sanitario ha perso circa 46mila tra medici e infermieri. Vi sono piani del ministro Speranza per colmare questo deficit (sono previste 61mila assunzioni) e anche per riorganizzare l’assistenza, tra l’altro incrementando l’informatizzazione, molto carente”.
Il recupero delle prestazioni perdute è tempo-correlato. Massimo Andreoni, direttore di Infettivologia del Policlinico di Tor Vergata e direttore scientifico Simit (società italiana di malattie infettive), ci spiega che “un trattamento per Epatite C avviato con un ritardo di 6 mesi porterà a 500 decessi in più, fuori scala”, i tempi di ammortizzazione non sono neutri “non solo, la ridotta possibilità di fare screening nel prossimo futuro porterà anche all’aumento di epatocarcinoma e trapianti di fegato”. Il peggioramento degli indici di sopravvivenza è indicativo anche per Antonio Cassone, già direttore di Malattie immunomediate dell’Istituto Superiore di Sanità “i dati dell’Istat relativi al periodo febbraio-novembre 2020 segnalano un eccesso di mortalità rispetto alla media del quinquennio precedente di circa 84mila unità mentre i decessi attribuiti ufficialmente a Covid sono stati nello stesso periodo poco meno di 60mila. Buona parte della differenza è da assegnare all’impatto indiretto che il Covid ha avuto sul mancato controllo di altre patologie, sia come diagnosi che come difficoltà di accesso alle cure”.
A mappare più nel dettaglio le fasce più fragili che hanno subito il contraccolpo più significativo è Filippo Anelli, presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri: “Forte preoccupazione sul prossimo futuro è data dalla ricaduta indiretta del Covid sugli anziani, il peggioramento delle loro condizioni di vita sarà inevitabile come d’altronde il notevole aumento dei carichi economici sulle famiglie”.
Fra chi ha subito un rinvio o un annullamento (27,9 milioni di italiani), il 30,2% degli intervistati ha poi scelto di svolgere il controllo in struttura privata, il 31% in struttura pubblica, ma soprattutto, per il 38,8% l’esame è stato annullato senza alcuna riprogrammazione. Sono circa 7 milioni coloro che hanno scelto di spostare almeno una delle visite/esami/operazioni programmate da una struttura pubblica ad una privata. Di questi circa 2,2 milioni di pazienti hanno chiesto un prestito ad amici, familiari o finanziarie. L’importo medio dei prestiti personali richiesti per questa motivazione è stato pari a 6.145 euro, da restituire in 53 rate (circa 4 anni e mezzo). La soluzione del prestito è più frequente tra i rispondenti residenti al Sud e nelle Isole, “è innegabile che esiste una pandemia sanitaria che porta con se una pandemia economica – Roberto Cauda, Direttore di Infettivologia del policlinico “Gemelli” – e questa sua volta, ha anche un effetto sulla accessibilità alle cure”.
Va pure detto che, oltre ai disservizi, vi è una fetta importante della popolazione che nel 2020 ha scelto di propria iniziativa di rinunciare a prenotare o effettuare una o più visite/esami specialistici; secondo l’indagine circa il 68,6% degli italiani, pari a circa 30 milioni di individui, hanno preso questa decisione almeno una volta durante gli ultimi 12 mesi. Il perché abbiano scelto di rinunciare a curarsi ha a che fare con tre motivazioni principali: paura di contrarre il Covid recandosi in una struttura medica, scoraggiamento da lunghissimi tempi di attesa a cui si aggiungono le difficoltà economiche.
“Purtroppo in Italia un vero e proprio sistema universalistico come ce lo immaginiamo non esiste più, nel senso che già il 27% della spesa sanitaria è “out of pocket”, ovvero gli italiani esborsano di tasca propria per le prestazioni ambulatoriali – sostiene Claudio Zanon, direttore scientifico di Motore Sanità – il taglio delle spese per screening e diagnosi, comporterà un aumento atteso del numero dei tumori non diagnosticati”. Secondo il presidente della Fnomceo il “diritto all’uguaglianza è messo in crisi se uno deve prendere un prestito per curarsi. Tutti dovremmo fare una riflessione in tal senso, è ormai acclarato in letteratura scientifica che l’aumento delle patologie è correlato anche al reddito, alla povertà”.
Il nostro era il paese più longevo d’Europa prima della pandemia. Adesso, il sistema sanitario del nostro Paese, dovrà cambiare e adeguarsi a crisi strutturali “il piano pandemico rilasciato dal ministero è molto generale – puntualizza Paolo Vineis – è necessario essere molto più fattivi ed efficaci. Anziché dire “che cosa si dovrebbe fare”, secondo uno stile comune a molte istituzioni pubbliche, il piano dovrebbe direttamente proporre strumenti, come per esempio chiare linee-guida per i medici di medicina generale. Ora il piano è generico, e non contiene neanche un’analisi di quello che non ha funzionato nel passato. Serve un cambiamento di passo”.
“La nostra sanità pubblica si è da sempre caratterizzata per l’universalità dell’offerta assistenziale – ricorda Roberto Cauda – e deve al più presto recuperare questa sua vocazione. Le modalità per fare questo le deve dettare la politica”. Per uscire da questo divario “bisogna iniziare da subito ad allocare risorse finanziarie ed umane a sostegno della medicina territoriale che è in grave sofferenza nella maggior parte delle Regioni Italiane – suggerisce Antonio Cassone -, il pieno recupero della medicina di base, in particolare degli screening per le patologie tumorali e cardio-vascolari deve essere un obiettivo strategico primario del prossimo governo”.
Deve mutare l’approccio finora cardine del nostro sistema, secondo Massimo Andreoni “le patologie croniche come quelle gastroenteriche o neurologiche, per fare un esempio, non dovranno essere più trattate in ospedale. Deve finire l’era ospedalocentrica. Per uscire dall’impasse il pubblico dovrà costruire e offrire sul territorio prestazioni ad alta specialità, capillari”. Non solo, “si potranno recuperare le prestazioni che hanno subito i maggiori ritardi in termini di lista di attesa, implementando l’attività ordinaria in slot orari non consueti (orario serale o festivo) – secondo Giuseppe Tarantini, Presidente Gise, Società Italiana dei Cardiologi interventisti -, tramite nuove assunzioni di personale sanitario”. Anche Sergio Iavicoli, membro del Cts del Governo, e Direttore del dipartimento di medicina dell’Inail sottolinea “l’importanza della rete della medicina territoriale, e il potenziamento degli strumenti della telemedicina – in modo che i medici operanti in quest’ultima, possano rapidamente segnalare eventuali aggravamenti clinici e “ricentralizzare” i pazienti negli ospedali”.
Una sanità a più livelli, quindi. A queste soluzioni se ne possono aggiungere altre, complementari, “secondo me si potrebbe ricorrere ad una figura finora molto marginale nel Ssn, ma che potrebbe dare un apporto estremamente importante, ovvero quella degli specialisti liberi professionisti accreditati (concetto diverso da quello delle strutture private convenzionate) – ci tiene a chiarire Filippo Anelli – sono chiamati in gergo “branche a visita”. Specialisti finanziati dallo Stato per garantire “x” visite. Oggi sono poco usate queste figure. Si può spostare una parte delle prestazioni sanitarie su questi specialisti – che si fanno carico di organizzazione e strutture in modo autonomo – aumentando budget e arruolandone di più, per provare a compensare i ritardi delle liste d’attesa e stare sul territorio”.